PAOLO BARONI
Nel secondo trimestre di quest’anno la crescita della ricchezza nazionale si è arrestata, certifica la Banca d’Italia. Che sempre ieri ha registrato un nuovo record assoluto del debito pubblico italiano che a maggio ha raggiunto quota 2.816,7 miliardi di euro, 59,8 in più della fine del 2022. In pratica, secondo le stime, si tratta di 47.862 euro a italiano, 107.483 a famiglia. Ma se questi dati, secondo via Nazionale non compromettono «il percorso di discesa dell’indebitamento rispetto al Pil», quelli relativi all’economia reale destano certamente preoccupazione.
La frenata di primavera, stando all’ultimo Bollettino di previsione diffuso ieri da via Nazionale, è dovuta essenzialmente alla diminuzione della produzione manifatturiera, frenata in particolare dall’indebolimento del ciclo industriale globale (che a sua volta sconta l’alta inflazione e condizioni di finanziamento restrittive legate agli aumenti generalizzati dei tassi di interesse), e delle attività nel settore delle costruzioni. «In attesa che lo stimolo derivante dal Pnrr si dispieghi pienamente», infatti, l’attività nel settore dell’edilizia si sarebbe ridotta «risentendo della graduale attenuazione degli effetti degli incentivi fiscali legati al superbonus 110%».
Dal lato della domanda il Pil sarebbe stato sostenuto ancora dai consumi, soprattutto dai servizi a partire da quelli turistico ricreativi. E per fortuna che già nel primo trimestre di quest’anno avevamo acquisito un bel +1,3% di crescita, livello che la Banca d’Italia conferma per l’anno in corso, mentre rivede al ribasso le stime del 2024, quando il Pil salirà appena dello 0,9% (anziché dell’1,1 previsto dal governo), e quelle del 2025 (+1%).
Insomma dopo il boom del 2021-2022 iniziamo a decelerare tornando ad una crescita sotto il punto percentuale. È la maledizione dello zero virgola che ci perseguita da decenni ormai. La colpa di questa frenata viene individuata essenzialmente in un fattore: l’indebolimento della dinamica degli investimenti privati, che si accentuerebbe nella seconda metà di quest’anno e nel 2024 per effetto dell’aumento dei tassi di interesse e dell’irrigidimento delle condizioni di accesso al credito. L’impatto sul Pil potrebbe essere anche più rilevante se non fosse compensato dal calo progressivo dell’inflazione e dai maggiori investimenti pubblici programmi nel Pnrr, che (sottinteso) la Banca d’Italia da per scontato che vengano messi a terra. Altra incognita tutta da verificare.
Quanto ai prezzi al consumo in primavera l’inflazione è ancora scesa (pur restando su livelli molto elevati), grazie alla decisa diminuzione della componente energetica che si è riflessa sui beni alimentari, su quelli industriali non energetici e a giugno anche in parte sui servizi. Quest’anno l’aumento dei prezzi sarebbe pari al 6% e poi scenderebbe al 2,3 nel 2024 ed al 2% nel 2025.
In questa fase aumenta il costo del credito e di conseguenza i prestiti bancari si riducono ed aumenta anche l’incidenza del flusso di prestiti con pesanti ritardi nei pagamenti.
In positivo, invece, ci sono i dati sull’occupazione che continua a crescere ed ha superato i valori pre-pandemici. Quanto basta per risollevare i consumi delle famiglie tornati a espandersi nel primo trimestre di quest’anno (+0,5% rispetto al periodo precedente), grazie al miglioramento della fiducia, al buon andamento del mercato del lavoro e ad una stabilizzazione del potere d’acqusito delle famiglie dovuto al pagamento di consistenti arretrati dovuti ai ritardi nei rinnovi nel comparto pubblico. L’aumento dell’occupazione, assieme a interventi espansivi sul sistema di imposte e trasferimenti, ha determinato un aumento del reddito disponibile delle famiglie. La propensione al risparmio, che dopo aver toccato picchi particolarmente elevati ad inizio 2021 aveva continuato a scendere, è tornata a salire collocandosi sui valori della fine 2019 (7,6%).
Quanto ai consumi, però, è sempre di ieri il nuovo allarme di Confcommercio, secondo cui il livello delle cosiddette spese obbligate (luce, gas, carburanti, abitazione, sanità e assicurazioni), per quanto in calo resta sempre elevato (41,5%) e rischia di produrre una riduzione strutturale dei consumi frenando la crescita ancor di più di quanto sia già avvenuto.