A parte Gramsci, e un po’ anche Togliatti, l’albo d’oro della Prima Repubblica indica i nomi di ben due Presidenti, Segni e Cossiga, poi Lussu, Berlinguer, Mariotto Segni, Arturo Parisi
Se la statistica elettorale è una scienza pazzerella, in Sardegna lo è anche di più. Nessuno sa bene il motivo, ma anche stavolta la fama d’incertezza e di sorpresa che accompagna i pronostici, e poi anche il voto, ha ottenuto una significativa conferma. Bingo, in ogni caso!
Esistono, è vero, elezioni più speciali di altre, però di solito dipende dal momento in cui si svolgono, dal grado di aspettativa che hanno innescato, dal contesto che le rende dei test tali da superare i limiti locali. In quest’ultimo caso il risultato della Sardegna, storicamente soggetta all’imprevedibile e ad alto tasso di ripercussioni sul piano nazionale, rafforza una regolarità. Cui si aggiunge la recidiva lentezza dello spoglio, la cosiddetta, ma anch’essa amletica “tagliola” e purtroppo anche la certezza che esaurita l’emozione, i leader dei partiti di Roma, fino a ieri così bendisposti a prendere l’aereo e a passare qualche giorno a stringere mani sull’isola, beh, è sicuro che lì non si faranno più vedere per un bel pezzo, chi ha avuto ha avuto ha avuto, e buonanotte.
Però adesso qualcosa è accaduto, che va ben oltre i destini di quanti hanno messo la scheda nell’urna. Qualcosa che pone l’isola al centro della scena pubblica e ce la tiene quel tanto che basta a ricordare che non è la prima volta, che da qui possono iniziare o finire tante cose.
Sul perché la Sardegna al voto sia così particolare è possibile azzardare delle ipotesi, naturalmente empiriche, per non dire potenzialmente strampalate. Forse è il numero ridotto degli elettori, appena il 3 per cento dei votanti in Italia, che ogni volta trasforma la prova in una specie di Super Sondaggio, per giunta gratuito. Forse, rispetto all’esiguo campione, è invece la storia e in fondo anche la qualità del ceto politico che la Sardegna ha donato all’Italia. A parte Gramsci, e un po’ anche Togliatti, l’albo d’oro della Prima Repubblica indica i nomi di ben due presidenti della Repubblica, Segni e Cossiga, poi di Emilio Lussu, Berlinguer, conpadre e fratello, Mariotto Segni, Arturo Parisi e altri.
Qualcosa deve entrarci anche la distanza geografica dall’Italia, e per dirla tutta, pure il senso di colpa o la coda di paglia per cui troppe volte lo Stato centrale ha promesso e ingannato il popolo o se si vuole i popoli sardi, e a maggior ragione proprio sotto elezioni, quindi lavoro, ambiente, facilitazioni nei trasporti interni, suggestioni & fantasmagorie culturali e poi, dopo lungo silenzio, ecco l’idea di scaricare in Sardegna un’altra base militare o qualche diavoleria per smaltire scorie nucleari.
E poi dice che votano strano. Così nell’isola, a differenza di tante altre regioni, non succede mai che chi governa venga mantenuto al potere. L’importante è cambiare maggioranza, presidente, tutto, ma ogni volta è una lotteria e una faticaccia, oltre a crescere l’astensionismo. Ciò detto, le elezioni in Sardegna offrono lo stesso, o proprio per questa loro anomalia, un indubbio rilievo politico, spesso in anche controtendenza, e prospettive a loro modo persino vaticinanti.
Nel 1999 il voto ant icipò la grande ripresa di Berlusconi che l’anno dopo mandò a casa D’Alema e nel 2001 s’insediò a Palazzo Chigi con grandi velleità di potere e corredo estetico da sovrano. Ma nel 2004 il voto dei sardi, con Soru, indicò che quelle velleità erano fallite e anche sul corredo estetico del Cavaliere s’era depositata un bel po’ di polvere; tanto che l’anno dopo cadde il secondo governo Berlusconi.
Le elezioni del 2009 costituirono d’altra parte la goccia che fece traboccare il vaso dell’esausta segreteria Veltroni o, se l’immagine pare troppo elaborata, funzionarono da colpo di grazia inferto al sogno di un Pd a vocazione maggioritaria. Anche in quel caso la lentezza dello scrutinio fu esasperante. Era chiarissimo che Soru aveva perso e ancora più chiara la vittoria di Cappellacci, ma all’appello seguitavano a mancare i risultati di un certo numero di sezioni, per cui non si poteva proclamare il presidente. Ma Veltroni, a quel punto, si era già bello e dimesso.
Nel 2014, anno primo dell’era renziana, il Pd riuscì a combinare un tale impiccio che la candidata governatrice si ritirò all’ultimo momento, ma il suo sostituto e tappabuchi, indipendente di centrosinistra, vinse lo stesso e pure benino. In quelle elezioni si presentò Michela Murgia, alla guida di una lista che si chiamava “Sardegna possibile”, ottenendo il 10,32 per cento. La volta dopo, era il 2019, la Sardegna preannunziò di qualche mese il successo europeo di Salvini, poi compromesso al Papeete; ma indicò pure con grande chiarezza che l’ondata grillina stava esaurendosi. Piccola e ribalda escursione nel pensiero laterale e della viralità digitale: fu proprio a ridosso di quella tornata che sotto il Palazzo di Montecitorio una vecchietta giunse inavvertita alle spalle del giornalista che commentava l’impatto del voto sardo sul governo e gridò, per la gloria sinistra del fuori programma: “Maledetti!”.
Come si vede, tra profezie e smentite, continuità e asimmetrie, cicli e labirinti, le elezioni in Sardegna costituiscono un piccolo grande romanzo politico che mai come in quest’ultimissima occasione presenta un finale ragguardevole. Sarà molto difficile stavolta negare che il voto abbia un contraccolpo sul potere. Se Todde vincerà, sarà molto difficile negare che da domani chi comanda comanda un po’ meno.