Il Pd alzi la testa, la fedeltà al premier non basta più
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14 Luglio 2022di Federico Geremicca
La cosa più sensata, per chi ama i thriller, stavolta sarebbe mettersi comodi in poltrona e vedere come va a finire. Il film – titolo possibile: «L’abisso di Conte» – è appena cominciato, e come tutti i film che si rispettino ha un primo ed un secondo tempo. La prima parte si chiuderà oggi, sull’immagine dell’Aula del Senato nell’attimo in cui vota la fiducia al governo senza il Movimento cinque stelle. Quel che accadrà nel secondo tempo sarà una conseguenza di quel voto. E potrebbe trattarsi di tutt’altro film, con un finale che degenera dal thriller all’horror.
È per questo che lungo tutto questo primo tempo Enrico Letta si è speso per evitare un epilogo che considera funesto: e cioè l’uscita dei Cinque stelle dalla maggioranza di governo. Una conclusione del genere, infatti, potrebbe perfino precipitare il Paese verso elezioni anticipate: e costituirebbe un problema per l’oggi – considerate le mille emergenze da fronteggiare – ed ancor più per il domani, con il chimerico campo largo ridotto in frantumi alla vigilia di un possibile scontro elettorale.
Sono queste considerazioni che hanno convinto il segretario a usare toni appena più forti del solito: la crisi sarebbe «irresponsabile» – ha detto ieri ai suoi parlamentari – e chi la determinasse non potrebbe certo poi esser alleato dei democratici alle elezioni. È una constatazione, non una minaccia, ha chiarito Letta. Può essere. Ma nel devastato accampamento dei Cinque stelle, l’annuncio ha aggiunto preoccupazione a preoccupazione. E se è vero che protagonisti e comparse stanno per ora recitando copioni tesi ad influenzare – con avvertimenti e minacce – l’epilogo del primo tempo, non è detto che in caso di rottura sia poi cosa semplice rimettere assieme i noti cocci.
Tutto questo, evidentemente, rappresenterebbe un rischio soprattutto per il Pd. È vero che – esclusa Giorgia Meloni – nessuno sembra pronto per il voto, a cominciare da Salvini e Berlusconi che, se lo volessero davvero, avrebbero potuto e potrebbero determinarlo in qualsiasi momento: ma tra qualche mese si voterà di certo, e il cosiddetto campo largo non può continuare a somigliare ad una sfiancante tela di Penelope. Secondo alcuni (nello stesso Pd) una rottura con il Movimento di Conte sarebbe manna dal cielo, perché potrebbe permettere la ripresa di un confronto serio con Calenda, Renzi e la irrequieta galassia centrista: ma Letta non si fida, resta prudente e vuole attendere almeno la conclusione del primo tempo del film per fare qualunque mossa.
È una strategia resa possibile anche dalla vaghezza della definizione “campo largo”. Chi deve esserci, infatti, nel campo largo? E chi creerebbe davvero problemi se invece non ci fosse? Il campo largo, insomma, non è il pentapartito: dove o si è in cinque o è un’altra cosa. È una formula così generica da poter assorbire (nascondere) qualsiasi defezione. Se Renzi non ci fosse, sarebbe sempre un campo largo? E se non ci fosse Conte? In realtà, il Pd ha semplicemente dato un nome nuovo ad una cosa antica: perché in politica non s’inventa quasi niente.
All’origine fu la «gioiosa macchina da guerra» targata Occhetto; poi divenne l’Ulivo (ricordiamolo: 18 formazioni politiche federate, nel 1996); quindi degenerò nell’Unione, per finire con la nascita del Pd «a vocazione maggioritaria». Oggi l’alleanza la si potrebbe chiamare «nuovo Ulivo»: sarebbe lo stesso, ma saprebbe di vecchio. Non la si potrebbe chiamare centrosinistra, invece: almeno fin quando punta ad ospitare i Cinque stelle, che – come è noto – non tollerano esser definiti di sinistra… La si potrebbe definire alleanza progressista, certo, ma resterà la definizione campo largo: e quanto largo dipenderà anche da come finirà il primo tempo del film in proiezione.
Enrico Letta resta comunque ottimista. Ieri ha fatto propria, impossessandosene, la cosiddetta agenda sociale messa in campo da Draghi, che ora è la ragion d’essere della presenza del Pd al governo: lavoro, salario minimo, lotta alla precarietà. «Chi determina la crisi, blocca tutto questo», ha spiegato, e i democratici non potranno mai allearsi con chi dall’opposizione spara contro quell’agenda: se il movimento di Conte oggi non vota la fiducia come ha annunciato, dunque, ognuno per la sua strada. E quella del Cinque stelle si farebbe ancor più in salita.
La direzione e lo stile di Letta invece non cambiano, fedeli ad un’impostazione che ha fin qui prodotto vittorie elettorali ed una nuova centralità. Sono bastate poche mosse: ancorare il Pd a Draghi senza ambiguità e nostalgie giallorosse, farne il “partito garanzia” della stabilità ed evitare polemiche e fughe in avanti, limitandosi ad aspettare gli errori degli avversari. La rielezione al Quirinale di Sergio Mattarella è stato il miglior esempio di questo stile da “temporeggiatore”. E radici non molto diverse hanno i tanti successi elettorali dovuti alla scelta di candidati sbagliati da parte del centrodestra. Anche oggi Enrico Letta temporeggia. Ma stavolta sa che il tempo della battaglia, dopo la scelta del Movimento cinque stelle, potrebbe esser vicino, più vicino di quel che continua a sperare…