il fascismo in Italia non tornerà. I quadrumviri in camicia nera non marceranno su Roma, dove tutt’al più convergono un centinaio di forconi e una ventina di trattori intruppati sul Raccordo Anulare. Le squadracce di Pavolini e Farinacci non bruceranno sedi di partito, sindacati, giornali, anche se l’attacco alla libera informazione è molto in voga, lo squadrismo digitale è vivo e vegeto e migliaia di nuovi arditi fanno il saluto romano gridando “presente”. Non conosceremo più l’orrore delle leggi razziali, anche se nell’era del revisionismo meloniano quelle del 1938 sono figlie di nessuno e il seme dell’antisemitismo continua purtroppo a dare i suoi frutti avvelenati. Non rivivremo un altro caso Matteotti, anche se aspettiamo con ansia di sapere come gli eredi della Fiamma che arde sulla tomba del Duce celebreranno il centenario dell’assassinio del deputato socialista, il prossimo 10 giugno.
Insomma,stiano sereni i Fratelli d’Italia: nessuno osa dubitare della loro sincera cultura costituzionale e liberale, di cui tante solidissime prove hanno già dato in questo primo anno e mezzo di governo. Ma possiamo dire che i manganelli della Polizia — sempre più frequenti e sempre più violenti, contro chiunque azzardi qualche forma di civile dissenso — sono una vergogna per la democrazia? E possiamo aggiungere che le cariche rabbiose degli agenti in tenuta antisommossa contro poche decine di studenti minorenni ci ripiombano se non negli anni neri dell’Ovra di Bocchini, in quelli bui della Celere di Scelba?
Qui non contano le ragioni della protesta. A Firenze e a Pisa i manifestanti erano in piazza per la Palestina. Erano qualche centinaio, per lo più ragazzi iscritti al liceo o a qualche collettivo.
Erano assolutamente pacifici, sfilavano ordinati e a viso aperto. Le forze dell’ordine li hanno affrontati, accerchiati e pestati come fosseroblack bloc.Basta vedere e ascoltare i video, per rendersene conto: gli agenti bastonano senza pietà, mentre i giovani urlano «basta», «non abbiamo fatto niente», «trattereste così i vostri figli?».
Se persino il sindaco Michele Conti — leghista che guida una giunta con FdI e FI — si dichiara «amareggiato come cittadino e come genitore», vuol dire che un confine etico e politico è stato ormai oltrepassato.
Al di là del Ventennio, le destre di ieri e di oggi hanno una collaudata dimestichezza con il diritto della forza, molto più che con la forza del diritto. E quando sono entrate a Palazzo Chigi non hanno mai disdegnato la violenza di Stato. La gestione criminogena del G8 di Genova, l’uccisione di Carlo Giuliani, gli sgherri di Alleanza Nazionale nella sala operativa della Questura, e poi la macelleria messicana alla Diaz e a Bolzaneto: pagine scandalose della storia repubblicana, scritte col sangue dalla trimurti Berlusconi-Fini-Bossi del 2001. Oggi non siamo (ancora) a quello scempio. Ma i misfatti di Firenze e Pisa non sono episodi casuali o isolati. Al contrario. Sono parte di un dispositivo di potere che Foucault, oggi, non esiterebbe a definire straordinariamente moderno e “tendenzialmente totalitario”.
Rappresentano l’attuazione pratica di modelli di populismo cesarista e conservatore — non solo italiano — basati sul controllo preciso di tutto e di tutti e ispirati al principio dell’assenso incondizionato che non contempla il dissenso. Riflettono un clima di autoritarismo e di intolleranza che c’è, nel Paese, e che questo governo e questa maggioranza alimentano ogni giorno, con l’azione e con la comunicazione.
Basta rimettere in fila i fatti, dal 25 settembre 2022 ad oggi. In nome di un’idea sguaiata e posticcia di “legge e ordine”, questa destra costruisce nemici e si accanisce contro tutto ciò che le appare diverso, anormale o deviante, rispetto ai suoi evanescenti e inconsistenti codici penali e morali. Al di fuori delle sue constituency elettorali codificate e certificate, tutto è “emergenza”, tutto è “aggressione”, tutto è “fango contro di noi”. Partendo da una postura vittimistica e revanscista — che nella premier è riemersa in modo quasi grottesco persino nel discorso di fine campagna elettorale in Sardegna, a metà strada tra il solito comiziaccio e la recita scolastica — tutto richiede una risposta poliziesca e securitaria. Dunque guanto di velluto con i colletti bianchi (cioè il pacchetto Nordio sulla giustizia, dall’abuso d’ufficio alle norme-bavaglio), ma pugno duro e galera contro i poveri cristi (cioè quello che nella società è difforme e/o dissonante). I rave-party e i migranti, le mamme rom e quelle che ricorrono alla gestazione per altri, i figli che imbrattano gli edifici pubblici e i genitori che non li mandano a scuola, gli ambientalisti che bloccano le strade e gli sbandati che fanno accattonaggio, le baby gang e i minori che spacciano, i detenuti che si ribellano in carcere e gli sfollati che occupano le case. Fenomeni socialmente deprecabili, certamente. Ma più che altro ossessioni da Stato Etico, dove non c’è mai spazio per la pietas e la comprensione dei problemi, ma solo per la crudelita se la sanzione dei comportamenti. Su queste basi, è del tutto naturale che uno come Salvini — incurante del dramma delle tossicodipendenze che devasta tante famiglie — dica «chi si droga è un coglione».
Le piazze sono quasi sempre vuote, nell’Italia che “trascina i piedi e cammina raso muro”, tra vitalità disperse e confronti pubblici giocati su emozioni di brevissima durata (come osserva il Censis). Ma appena si riempiono, per qualunque motivo, rotea sulle teste il “tonfa” degli agenti in divisa. È successo ieri, a Firenze e Pisa per i cortei su Gaza. Ma era già successo a Roma il 25 ottobre 2022, l’epifania politica di Meloni, proprio quel giorno in Parlamento per il voto di fiducia al suo governo, che volle festeggiare con una pioggia di randellate contro gli studenti della Sapienza. Era già successo a Venezia, con gli studenti di Ca’ Foscari in corteo contro la riforma Bernini. A Torino, con gli studenti delCampus Einaudi che manifestavano contro un volantinaggio del Fuan. A Palermo, persino contro gli studenti riuniti davanti all’albero anti-mafia dedicato a Giovanni Falcone. E dove non ci sono poliziotti o carabinieri, arrivano i solerti funzionari della Digos. Che non si scomodano peri duemila neo-missini diAcca Larentia. Ma identificano un cittadino qualunque perché grida «viva l’Italia antifascista» alla prima della Scala. O addirittura dodici anime buone che ai giardini Anna Politkovskaja depongono una rosa per Aleksej Navalny. Questo è lo Zeitgeist. Questa è l’aria che tira. Anche le forze dell’ordine la respirano. E al di là dei comandi ricevuti, agiscono di conseguenza. Se i tempi non fossero questi, forse, non avremmo mai sentito un uomo dell’Arma che in strada, alla 94enne Franca Caffa, risponde: «Mattarella non è il mio presidente, non l’ho votato, non l’ho scelto, non lo riconosco».
È la natura della “nuova” destra patriota: una forma di totalitarismo soft.Che non poggia affatto su un solido impianto culturale, di cui sono totalmente sprovvisti (a dispetto dei patetici tentativi fatti finora). Semmai su un logoro strumentario ideologico, che rimpiangono e che adesso precipita nel Premierato Forte, nell’elezione diretta del presidente del Consiglio, cioè nella “capocrazia” e nei pieni poteri. Il Cavaliere di Arcore provava ad arrivarci con la televisione, la Sorella d’Italia con la repressione. Ora può darsi che Meloni si prenda la Sardegna. Poi anche l’Abruzzo, la Basilicata, il Piemonte. E può darsi che trionfi alle Europee. Ma chi vince non ha sempre ragione, solo perché ha vinto. E la sua ragione non può farla valere con la protervia, l’arroganza, il dominio. Deve cercare il consenso, attraverso il confronto. È la meravigliosa fatica della democrazia. Che, prima di tutto, è limite. Se non si accetta questo, a un certo punto arriva Orbán.
E poi, spingendo la notte ancora più in là, resta solo Putin.