È possibile disertare? Non intendo dire restare indifferenti o assumere una posizione equidistante, bensì sottrarsi alla logica bellica degli opposti schieramenti in campo — filopalestinese, filoisraeliano — e adottare un punto di vista che vada oltre questa tragica spirale di morte.
Quando sento anche persone a me care (politicamente e affettivamente) ammonire che i bambini palestinesi uccisi dai bombardamenti di Israele sono «tre, quattro volte» quelli uccisi da Hamas provo un leggero disgusto. Le cifre sono quelle e quella è la loro ripartizione etnica.
Ma questo calcolo selettivo aiuta a porre rimedio alla catastrofe in corso?
Accade che quotidianamente venga stilata una sorta di gerarchia del dolore, esito torvo di una triste contabilità dei morti, dei feriti, dei rapiti e della loro aritmetica attribuzione all’una o all’altra parte in guerra. E provo altrettanto disgusto per l’ossessione di trarre un saldo definitivo nel bilancio delle responsabilità e delle cause, delle radici remote e delle dinamiche storiche che hanno determinato l’attuale tragedia. Non che queste non esistano o non siano trattabili e discutibili, ma mi sembra che non possano più essere utilizzate secondo l’elementare e micidiale meccanismo di causa-effetto.
Per capirci, resto convinto che tra le antiche ragioni di quella tragedia vi sia la mancata fondazione di uno Stato palestinese all’epoca della formazione di quello di Israele; e che tra quelle recenti pesi assai significativamente l’occupazione dei territori palestinesi e la politica di colonizzazione messa in atto dai governi israeliani. Ma non mi basta. Limitarsi a questo rischia di alimentare il giustificazionismo morale che inevitabilmente porta a ritenere Hamas come l’espressione — magari deformata — di una causa giusta. Così non è. Per questo bisogna tornare al 7 ottobre scorso e alla carneficina, a opera di Hamas, nel deserto del Negev e nei kibbutz di Kfar Aza, Be’eri, Re’im e Urim.
Condivido l’opinione di quanti hanno definito quel massacro come l’azione più efferata dopo i crimini della Shoah. E la condanna sarà tanto più forte quanto più saremo capaci di considerare il comportamento di Hamas non come la manifestazione estrema ed estremista della condizione di oppressione del popolo palestinese, bensì come una scelta tutta politico-militare e tutta da attribuirsi alla strategia dell’Iran e dei “partiti armati” da esso formati e finanziati.
Da qui una ulteriore conseguenza: le vittime civili della reazione di Israele mai potranno essere considerate — come tanti fanno — una forma di risarcimento o diriequilibrio per le vittime ebree. Anche in questo caso ci si deve sottrarre al meccanismo di causa-effetto. Anche in questo caso le morti dei civili palestinesi non sono l’esito collaterale di una giusta reazione di Israele ai crimini di Hamas, ma l’espressione di una strategia politico-militare del governo Netanyahu.
Per questo quello che vorrei riuscire a dire e a motivare è una posizione che non si schieri con una fazione o con l’altra, bensì esclusivamente dalla parte delle vittime quando come tali si presentano a noi con tutto il loro carico di dolore. Sono d’accordo quindi con quei cinquecento ebrei statunitensi — tra loro una ventina di rabbini — che la scorsa settimana hanno manifestato all’interno del Congresso degli Stati Uniti chiedendo il “cessate il fuoco”.
Insomma, non ne posso più di questa interpretazione competitiva e tifosa dell’orrore e penso che sia nostro compito — tanto più perché siamo privilegiati e viviamo in una comfort zone dove non arrivano né le bombe né i parapendio — farci carico del dolore di tutti, cercando di porvi rimedio nei limiti delle possibilità e delle responsabilità di ognuno e tentando di disinnescare il dispositivo infernale della vendetta che chiama vendetta.
Voglio dire, molto semplicemente, che, mentre mi auguro con tutta l’anima che Israele interrompa i suoi bombardamenti indiscriminati e l’assedio a Gaza, non voglio dimenticare nemmeno per un attimo gli ebrei sgozzati nei kibbutz e quelle ragazze e quei ragazzi uccisi mentre ballavano.
Solo se pensiamo a loro, ai loro nomi e cognomi, alle aspettative distrutte, alle speranze spazzate via e alla dignità mortificata, solo allora potremo essere all’altezza del dolore altrettanto irreparabile dei loro coetanei palestinesi. Ciò che davvero conta è “l’autorità dei sofferenti”, di cui scriveva Johann Baptist Metz. Non la sofferenza come astrazione o categoria ideologica, come fattore statistico o contabilità funebre. Ma la sofferenza dei corpi straziati di esseri umani che sono solo ed esclusivamente esseri umani.
Questo non significa ignorare la storia e la geografia e le dinamiche politico-diplomatiche: si tratta piuttosto di constatare che siamo precipitati in una dimensione che eccede tutto questo e che si presenta come dis-umana, dove serve qualcosa di più dei consueti strumenti di analisi e di intervento. E dove tutti dovremmo essere capaci di andare oltre la miseria degli schieramenti convenzionali e della logica marziale, o di qua o di là: quella che sempre impone di sacrificare un pezzo di umanità a vantaggio di un altro pezzo di umanità.