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di Pierluigi Piccini
L’articolo apparso su La Nazione consente di chiarire un punto che spesso resta implicito nel dibattito pubblico: il modo in cui si costruisce una lettura dei territori capace di orientare le scelte. Non si tratta di enunciare obiettivi o di proporre immagini rassicuranti del futuro, ma di partire da un’analisi dei rapporti reali che attraversano una comunità. In questo senso, il riferimento a Gramsci non è culturale né ornamentale, ma metodologico.
Per Gramsci, ogni analisi efficace prende le mosse dai rapporti di forza, materiali e simbolici, che strutturano una società in un determinato momento. Non esiste pensiero neutro: esiste un lavoro di comprensione che deve misurarsi con la struttura economica, con le forme dell’organizzazione sociale e con il modo in cui esse producono consenso o conflitto. Applicare questo metodo a un territorio significa partire non dalle dichiarazioni d’intenti, ma dalle condizioni reali in cui esso opera.
Le considerazioni emerse sull’Amiata si collocano su questo piano. Il dato demografico, spesso assunto come prova di un declino inesorabile, viene ricollocato dentro un quadro più articolato. La popolazione è ridotta, ma il territorio è attraversato da flussi di lavoro, da una presenza di lavoratori stranieri e da un sistema produttivo che continua a funzionare. In termini gramsciani, non siamo di fronte a un corpo sociale inerte, ma a una struttura ancora attiva, attraversata da rapporti economici che producono integrazione e stabilità relative.
Il lavoro costituisce qui un elemento strutturale. Le aree produttive della Casa del Corto e della Rota non sono semplici spazi tecnici, ma luoghi in cui si concentrano competenze, occupazione e relazioni economiche che superano i confini comunali. In questi nodi si manifesta una parte rilevante della struttura su cui poggia la vita del territorio. Riconoscerlo significa evitare sia la retorica della marginalità sia l’autonarrazione consolatoria.
Da questa base discende un altro passaggio: parlare di Val di Paglia non equivale a evocare un’entità amministrativa, ma a riconoscere l’esistenza di un insieme di relazioni produttive, infrastrutturali e sociali che tengono insieme soggetti diversi. Qui il territorio non è un contenitore, ma il risultato di un intreccio tra economia, istituzioni e pratiche sociali. Governi locali, imprese, lavoratori, servizi e reti infrastrutturali concorrono a formare un equilibrio dinamico che può consolidarsi o disgregarsi.
È su questo terreno che si colloca il tema dell’egemonia, intesa nel senso più rigoroso del termine: non come propaganda o dominio simbolico, ma come capacità di tenere insieme interessi differenti in una direzione riconoscibile. L’egemonia non si proclama, si costruisce attraverso mediazioni, scelte coerenti e continuità di indirizzo. Richiede che l’analisi economica, quella sociale e quella culturale convergano.
Le traiettorie legate alla transizione ecologica si inseriscono dentro questo quadro. La geotermia non è soltanto una fonte energetica, ma una componente di un possibile nuovo equilibrio produttivo. Attorno ad essa si sviluppano processi di innovazione tecnologica, di riduzione degli impatti ambientali e di sperimentazione sulla cattura e il riuso della CO₂. A questi si affiancano filiere legate ai nuovi materiali, alla chimica verde e alle bioplastiche, che mettono in relazione agricoltura, ricerca e industria. Tutto ciò contribuisce a ridefinire i rapporti tra base produttiva e organizzazione sociale.
In una lettura attenta, anche la cultura (i simboli) fa parte della sovrastruttura attiva che contribuisce a stabilizzare o trasformare i rapporti sociali. Non è un ornamento, ma uno spazio in cui si forma il senso comune. Le esperienze culturali e il recupero di luoghi come il Palazzo Bourbon del Monte assumono valore proprio perché intervengono su questo piano: producono significati, costruiscono riconoscimento, rendono leggibile un percorso di trasformazione.
È a questo punto che si può usare e per una sola volta, la parola visione: non come proiezione astratta, ma come esito di un lavoro che tiene insieme struttura e sovrastruttura, economia e cultura, analisi e decisione. Non nasce dall’intuizione individuale, ma dalla capacità di leggere i rapporti di forza e le contraddizioni che si generano e di orientarne l’evoluzione.
In questa prospettiva, il pensiero non è mai separato dall’azione. L’analisi serve a rendere praticabile la decisione, non a sostituirla. Governare significa muoversi dentro vincoli reali, assumere responsabilità, accettare conflitti e mediazioni. È qui che teoria e prassi cessano di essere categorie astratte e diventano strumenti di lavoro.
Su questo terreno, esigente e poco consolatorio, si colloca il confronto pubblico. Non sul piano degli slogan o delle appartenenze, ma sulla capacità di leggere i processi in atto e di costruire, passo dopo passo, una direzione condivisibile per il cambiamento.





