«Quando ho cominciato a insegnare, nel 1969, la prima frase che mi sono sentito ripetere fino alla nausea in sala professori è: “Non leggono più”. Mezzo secolo dopo, cosa mi dicono tutti? “Non leggono più”. Questa faccenda del “bisogna leggere” è un’assoluta ipocrisia adulta. Perché agli adulti in realtà non importa affatto che i ragazzi leggano o no, adesso o quando avranno cinquant’anni. Quando dicono “non leggono più” stanno dicendo tutt’altro: andranno male a scuola, si faranno bocciare, non prenderanno il diploma, cosa faranno da grandi senza titolo di studio… È semplicemente una sanzione sociale. Stanno dicendo che hanno paura che i figli vadano male agli esami. È l’imperativo scolastico, che non ha niente a vedere con la lettura. Chi se ne frega? dico io. Quello che conta è costruire veri lettori, lettori liberi. Mi interessa che questo bambino di dieci anni che ho di fronte, quando lo incontrerò per strada tra quarant’anni, mi dica: mi sono fatto un mondo di amici, tra Balzac, Gadda, senza imposizioni e senza obblighi. I veri vettori della lettura sono di altra natura, e a pilotarli sono di norma affetto, sentimento, amore e amicizia: condividere la conoscenza di un libro. Incontri una ragazza che ti piace e ti chiede: “Hai letto questo romanzo?” È lei che diventa vettore di lettura».
A inizio dicembre Daniel Pennac è stato premiato al Noir in Festival di Milano con il Raymond Chandler Award riservato ai grandi autori del mystery. Con Capolinea Malaussène (edito da Feltrinelli, come tutti i romanzi della saga, oltre cinque milioni di copie all’attivo) si è appena congedato dalla variopinta famiglia di Belleville e dalle semicomiche peripezie polar con cui ha convissuto per trentotto anni. Quello che parla in questa intervista è però un altro Pennac, le professeur Daniel Pennacchioni (cognome còrso, non italiano), ventotto anni di insegnamento alle spalle e un’ostinata militanza per avvicinare i ragazzi alla letteratura fin dai banchi di scuola. Un’intervista che è quasi un bilancio, un consuntivo. Infatti il punto di partenza è Come un romanzo (Comme un roman), il suo saggio-manifesto a favore della la lettura pubblicato nel 1992.
Trent’anni fa il decalogo dei «diritti inalienabili del lettore» allegato a Come un romanzo ha liberato dai sensi di colpa eserciti di persone. Lei ci liberava dalla sacralità della lettura. Sanciva il diritto, tra l’altro, di non terminare un libro, di saltare pagine, di leggere qualsiasi cosa e in qualsiasi posto. E con quel saggio ha illuso migliaia di genitori che leggendo libri ad alta voce ai loro pargoli avrebbero allevato lettori voraci. Temo di doverle dire, da esperienza diretta, che il consiglio non ha funzionato.
Non c’è un rapporto causa-effetto automatico che scatta per tutti. Si tratta, in realtà, di un principio-base elementare: tutti i bambini del mondo amano che gli si legga una storia per addormentarsi. Ci saranno eccezioni, ma non ne conosco. Prima di me lo aveva già detto benissimo Paul Valéry: leggere o raccontare storie ai piccoli, prima di dormire, è il modo migliore per introdurli alla letteratura. Il problema è che non bisogna smettere, bisogna insistere e va fatto con passione, non perché “si deve”, come una corvée. Bisogna comunicare un legame stretto tra affetto e letteratura. Ma perché funzioni è indispensabile che il lettore, o il narratore, provi piacere nel fare quella cosa in quel momento, senza riserve. Se nel tuo intimo pensi di star perdendo tempo prezioso è tutto inutile.
Pensa davvero che questo valga anche per l’èra digitale, con i ragazzi monopolizzati a tempo pieno da computer e cellulare?
Se passano la giornata a “leggere” il cellulare la colpa è solo dei loro genitori. È perché tu sei un iper-consumatore/consumatrice dei beni di consumo più abbrutenti di questa nostra società che un giorno, perché tuo figlio ti lasci in pace, gli hai regalato quell’aggeggio. È come se i genitori si rifiutassero di comportarsi da adulti. Se metti un cellulare in mano a tuo figlio è la fine dell’interesse, della curiosità: la fine del rapporto.
“Adulto” per lei è una parola-chiave, e prescinde da autorità e genitorialità. Con i Malaussène è stato tra i primi a demolire la retorica sulla famiglia e la maternità, che i nuovi governi di estrema destra rilanciano con tanta enfasi.
Da noi in Francia le famiglie “monoparentali” sono in crescita esponenziale. Dietro il termine burocratico c’è la stessa realtà: un uomo che ha abbandonato i suoi figli e la loro madre. Con i miei Malaussène non ho raccontato questo. Ho raccontato una madre che fa figli per passione. E mi sono chiesto: di cosa hanno bisogno i figli per crescere? Di un adulto. L’adulto è Benjamin, un principio educativo fatto persona. Mia moglie e io abbiamo molti figli che ci hanno adottato come genitori, figli “adottanti”, non adottivi. I giovani hanno bisogno di adulti, poco importa che siano i genitori legittimi. Hanno bisogno di un’autorità lucida e affettuosa. È l’opposto delle figure che guidano la nuova ondata di estrema destra, i Trump, i Bolsonaro, incarnazioni dell’individuo che pensa solo a sé stesso. È il frutto della mercificazione implacabile dei rapporti umani ed è lo scenario che la pigrizia politica e intellettuale di noi democratici ha favorito: abbiamo rinunciato a immaginare un futuro per la collettività.
L’adulto determinante nel suo caso è stato un professore di liceo. Ma fare gli insegnanti oggi è sempre più difficile.
Ma resta sempre il più bel mestiere del mondo. E cosa vuol dire “difficile”? Dovremmo metterci ad avere paura della gioventù? A quindici anni io ero uno studente svogliato e molto bugiardo. Ho trovato un insegnante che anziché giudicare da un punto di vista morale le mie bugie le ha giudicate intellettualmente. “Hai molta immaginazione – mi ha detto – invece di mentire, scrivimi un romanzo a puntate nel prossimo trimestre. Per l’ortografia, tieniti sempre sul tavolo questo dizionario”. Ho quasi ottant’anni, e quel dizionario lo tengo ancora sul tavolo. Era solo un insegnante che faceva bene il suo mestiere. Quelli che moralizzano il comportamento deviante di uno studente perdono la guerra: bisogna provare a trasformarlo in energia pedagogica. Ci vuole solo un po’ di interesse, di amore e di curiosità. E anche di memoria: noi siamo stati loro. È questo il mestiere di insegnante: un misto tra la memoria che abbiamo della nostra adolescenza, la curiosità che dobbiamo avere per la loro e la consapevolezza che, nei loro gruppi e nelle loro bande, ognuno di loro si sente terribilmente solo e ha bisogno di adulti. Se cominciamo a pensare che è troppo difficile, siamo tutti fottuti, noi e loro.
La vera sorpresa, chiamiamola pure rivelazione, di questo incontro è però il nesso bizzarro che collega Pennac e Fabrizio De André. Entrambi sono stati folgorati da un saggio del 1982 del filosofo René Girard Il capro espiatorio. La teoria di Girard sul capro espiatorio come elemento fondante di ogni gruppo sociale è stata il nucleo primario su cui lo scrittore ha costruito il personaggio di Benjamin Malaussène e l’intera saga biblica della sua tribù familiare. Quello stesso libro nelle mani di Faber per me è un ricordo struggente.
Durante la lunga genesi del suo ultimo album, Anime salve, per mesi e mesi ha ragionato sulle implicazioni di quelle pagine. Macinava libri su libri, questo mio amico-fratello, di norma di notte, per distillare un concept che accomunasse canzoni solo apparentemente autonome. Nel concetto di capro espiatorio ha trovato il perno di tutto. I più emblematici capri espiatori sociali del disco sono i nomadi di Khorakhané- A forza di essere vento, ma se riflettete sui testi la continuità salta agli occhi. Questa scoperta a Daniel Pennac ha fatto piacere. A me ha dato i brividi. La memoria è una gran bella cosa, ma fa anche star male. I libri vivono troppo più a lungo delle persone.