di
Antonio Fraschilla
e Andrea Greco
Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, ai vertici di Mps nel triennio 2012-15, non sono colpevoli di falso in bilancio e aggiotaggio, perché per la corte d’appello di Milano “il fatto non sussiste”. È la formula più ampia, che nega il presupposto storico dell’accusa. Nega che le operazioni strutturate “Alexandria” e “Santorini” fossero derivati, derubricandoli a “pronti contro termine” su Btp del Tesoro. La (ex) terza banca italiana lo afferma dal 2013, sebbene le stesse Deutsche Bank e Nomura, le controparti di quelle operazioni spericolate, le abbiano sempre considerate derivati come fan tutti nella prassi internazionale. Perfino i due imputati, nel processo di primo grado che li condannò a sei anni, hanno incardinato una tesi difensiva centrata sulla natura di derivati dei due veicoli finanziari.
Sembra una disputa tra nominalisti medievali, ma ci sono effetti di sostanza, perché trattare i due strumenti come “derivati” facilita l’imputazione per falso in bilancio. La rettifica che li ha rinominati nel bilancio da pronti contro termine a derivati è arrivata solo nel 2015, il che ha portato gli inquirenti a trascinare in 10 anni di processi sia i predecessori Giuseppe Mussari e Antonio Vigni (e le controparti Nomura e Deutsche Bank) che Viola e Profumo, i banchieri “nazionali” chiamati da Milano a sistemare i pasticci dei “locali”. Un canyon giudiziario in cui la magistratura ha dispiegato ogni mezzo in una ridda di procure, inquirenti, perizie, spesso in contrasto fra loro. Un gran polverone che ora assolve tutti, ma non lascia una verità lineare sullo sprofondo Mps, costato oltre 20 miliardi: e più di un terzo dei contribuenti. Nemmeno la morte per suicidio del povero David Rossi, unica vittima di questi delitti senza castigo, è una verità accettata, con gli eredi pronti a una nuova causa civile. Eppure di responsabilità ce ne sono a iosa (con i magistrati, i banchieri, i soci locali retti dalle anime rivali del Pd, i controllori inefficaci Consob e Bankitalia). Fino a far quasi sparire la banca più antica del mondo. Oggi Mps può dire di essersi salvata, grazie ai tagli di personale e al rialzo dei tassi: ma sembra avere rotto il legame con Siena, mentre si avvicina a un destino incerto, tra finire nel “terzo polo italiano” e navigare sola, senza più il timone del Tesoro.
Intanto, bisogna distinguere la verità giudiziaria dalla verità e basta. La prima si produce in tribunale, provando le colpe e il dolo degli attori, con effetti penali, o civili. La seconda appartiene alla storia e riguarda i fatti. Mettere tutto sullo stesso piano, per decretare ora che sono tutti “non colpevoli”, e i fatti “non sussistono” perché lo dice qualche giudice, sarebbe un grossolano errore. Come dice Roberto Barzanti, sindaco di Siena negli anni ’70, «bisogna distinguere i due ambiti, quello giurisdizionale e quello operativo e politico, per rintracciare le responsabilità. Se dai processi non sono emersi colpevoli, pur se alcune condotte sono parse al limite, è evidente che tanti banchieri hanno compiuto errori dalle nefaste conseguenze: oltre al fatto che la politica e le istituzioni, chiamate a indirizzare e a vigilare, hanno mancato gli obiettivi». Non fare questa premessa sarebbe uno sfregio per quello che c’era e non c’è più. Andatelo a dire alla famiglia di David Rossi, che non è successo niente: o a decine di migliaia di altre famiglie che hanno perso oltre 20 miliardi in azioni Mps.
Partiamo quindi dalla sentenza che i giudici di Milano motiveranno tra due mesi a favore di Profumo e Viola. I due banchieri, chiamati nel 2012 a Siena dalle supreme autorità (politiche, il Pd fulcro del governo, e bancarie, la vigilanza), furono poi accusati, e nel 2020 condannati, di aver rappresentato erroneamente operazioni di finanza strutturata accese dai predecessori Giuseppe Mussari e Antonio Vigni per celare perdite del bilancio 2008, tenerlo in utile e così pagare magre cedole ai soci. In cambio del “disturbo” Nomura e Deutsche Bank, banche d’affari controparti di “Alexandria” e “Santorini” riscossero per anni gli interessi su 7 miliardi di euro di Btp, lasciando al Monte le briciole, e le scosse che il rischio Italia produceva. Si racconta che Alexandria e Santorini fossero nell’elenco delle operazioni che nella primavera 2012 i pm di Siena chiesero ai manager senesi di spiegare; e che a ciò li inducesse una segnalazione della Banca d’Italia, dopo una delle sue ispezioni chiusa con l’invio delle carte alla locale procura. Col senno del poi, quasi un gettare la spugna, perché fino ad allora Bankitalia e Consob avevano quasi dettato la linea a Mps sui dossier più delicati, dall’acquisto di Antonveneta e al lancio di bond Fresh e Casaforte per finanziarla. Lo stesso Ignazio Visco, due mesi fa, ripercorrendo i 12 anni al vertice di Bankitalia, ha detto: «A un certo punto su Mps andrà fatta una riflessione, su che cosa ha determinato, come ci siamo comportati».
In quella primavera 2012 gli spread si allargano e la crisi sovrana scuote l’Europa. La banca, già provata dall’acquisizione di Antonveneta a 9 miliardi in contanti più 8 di debiti, sbanda, e fatica a raccogliere la liquidità che serve a erogare i crediti. Il 12 giugno chiede aiuto allo Stato, che provvederà con i Monti bond prestando 4 miliardi. Tutti gli stakeholder senesi subiscono forti tensioni. I magistrati, dopo le segnalazioni della vigilanza, delegano al Nucleo valutario della Gdf indagini a tappeto. Corrono ipotesi di ogni tipo: tangenti miliardarie al Pd per favorire l’acquisto di Antonveneta, fondi neri dello Ior e conti segreti, leggende di festini “nelle ville tra l’Aretino e il mare”, una “banda del 5%” che fa le creste sulle operazioni assegnate all’esterno, con capo il manager Gianluca Baldassarri (incarcerato, poi condannato, infine assolto perché “il fatto non sussiste”), un “gruppo della Birreria” che tresca con gli immobili Mps, il falso in atto pubblico dei vertici Mps per la privatizzazione dell’aeroporto di Ampugnano.
Che fine hanno fatto gli imputati
Un vaso di Pandora giudiziario scoperchiato in quei mesi, che ha spesso preannunciato bombe, scoppiate poi come petardi bagnati. L’acme è nel gennaio 2013, quando Tito Salerno, procuratore di Siena, dice alla stampa: «Non posso dirvi nulla, la situazione è esplosiva e incandescente, stiamo parlano del terzo gruppo bancario italiano». Dapprima le piste convergono sull’acquisizione di Antonveneta, il suo finanziamento e la cosmesi dei bilanci. E mentre fioccano le ipotesi fanno da parafulmine alla rabbia della piazza i vertici della banca e gli amministratori: quasi sempre del Pd, che paga un prezzo amaro a Mps, tra le ragioni delle due sconfitte alle elezioni nazionali 2013 e 2018.
Anche senza condanne, le inchieste hanno inserito la banca in un decennio di instabilità permanente, in cui uffici legali, udienze, processi pubblici – nella totale politicizzazione del dossier – succhiano l’energia ai manager, più intenti a difendersi o accusare che a risanare. La vigilanza bancaria, nel trasloco da Roma a Francoforte, dal 2014 diventa un occhiuto indagatore di omissioni (come dimenticare il test di presa in carico della Bce, che nell’ottobre 2014 impone di classificare oltre un terzo di tutti crediti Mps in “deteriorati”?). Dopo oltre un anno interviene la procura di Milano, aprendo inchieste sulle materie di competenza, come l’aggiotaggio, perseguito dai pm milanesi perché Mps è quotata. Ma ciò, oltre a far entrare in campo i magistrati più esperti, produce frizioni tra procure, e tra pubbliche accuse e giudici. Il nuovo management corregge per due volte i bilanci, nel febbraio 2013 e dicembre 2015, su pressione delle autorità inquirenti e vigilanti. Qui la disputa diventa stabilire se Alexandria e Santorini, siano da iscrivere come “pronti contro termine” di Btp oppure “derivati”. La seconda modalità, che è prassi all’estero, agevolerebbe l’imputazione di Nomura e Deutsche Bank da parte dei pm, che hanno con loro conti in sospeso dall’inchiesta sui derivati del Comune di Milano. Lo stesso filone peraltro induce Viola e Profumo a rompere la logica del “cane non mangia cane”, che nel 2013 li vede accusare i predecessori per avere contabilizzato come pronti contro termine i due veicoli. Un’altra crepa, in cui entreranno migliaia di parti civili (ce n’è ancora 5.200 nell’ultimo filone di processo, sui crediti deteriorati), che dopo avere contestato la veridicità di bilanci e prospetti sono giunte a chiedere 10 miliardi di danni a Mps. Spesso grazie ai carismatici consigli di Giuseppe Bivona, ex banchiere d’affari, mago dei derivati e poi grande accusatore, in proprio o per conto di investitori, sulle cose senesi.
Indagini, sospetti, condanne, assoluzioni. Un gorgo che, tra l’altro, stronca la carriera di decine di banchieri Mps. Tutti ex ormai: per le ricadute reputazionali, e perché le norme bancarie sono piuttosto severe: una sentenza di primo grado può far perdere i requisiti. Quasi tutti sono entrati in un cono d’ombra, tra damnatio memoriae e rabbiosi rimpianti. Chi è messo peggio pare Antonio Vigni, dg negli anni del dissesto. Uomo la cui mitezza, quasi remissività, si specchia nell’ego magno di Giuseppe Mussari, suo presidente che decide ogni strategia da Antonveneta in poi. Si racconta che viva ritirato, nella tenuta di Castelnuovo Berardenga, dove si dedica alla terra. La casa di Siena, non ce l’ha più: pignorata da Mps, che dopo la prima condanna su Santorini gli chiese 50 milioni di danni. Azione approvata dalla Cassazione nel 2020, quindi definitiva. Simile richiesta da 50 milioni è pendente su Mussari per Alexandria, e qui è attesa tra poco la prima sentenza. L’ex re di Siena intanto è tornato alle origini: nella natia Catanzaro, dove ha ripreso a fare l’avvocato penalista e prova a evitare un passato ingombrante, che lo portò in pochi anni a giocare da terzo banchiere d’Italia e rappresentante degli altri in Abi; lui che in seguito, per difendersi, ammise di “non avere le competenze” del banchiere. Un anno e mezzo fa, dopo l’appello di Firenze che con Vigni lo ha assolto, i suoi legali dissero: «L’avvocato non è più quel che era quando questa vicenda è iniziata, e nessuno gli restituirà nulla». Le cose non sono andate bene a Fabrizio Viola. Banchiere tra i più quotati alla nomina a medico del Monte, gradita alla vigilanza, pochi mesi dopo l’arrivo già parla di “danno reputazionale per diversi miliardi” per il gorgo giudiziario. Ma l’ex manager di Bper e Bpm non ha visto tutto. Il danno lievita, per i miliardi fuggiti dai conti correnti, quelli persi in Borsa, quelli non rimborsati dopo le erogazioni allegre del passato. Viola però, anziché concentrarsi sulla cancrena dei crediti pensa di rilanciare Mps al modo della Parmalat sotto Enrico Bondi. A colpi di cause, e richieste miliardarie alle controparti. Una strategia d’attacco che trascura la difesa: al punto che il nuovo management nemmeno sostituisce il vecchio capo dei crediti della gestione Mussari. La banca così resta esposta ai riflettori e, nell’intreccio delle cause, si insinuano gli azionisti al traino di Bivona, carismatico consulente di chi cerca rivalse. Estromesso da Mps nel 2016, per uno sgambetto del ministro del Tesoro Pier Carlo Padoan, Viola si è trasferito in Veneto, ma non ha avuto più fortuna nel salvataggio di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, sfumato a metà 2017. Da allora le pendenze gli hanno impedito l’accesso a nuovi incarichi e offre consulenze. «La sentenza – ha detto l’11 dicembre – fa giustizia e chiude una triste e penosa vicenda durata 10 anni. Purtroppo, la profonda amarezza di essere stato condannato per reati dichiarati in appello inesistenti mi accompagnerà per la vita, e i danni soprattutto reputazionali subiti non me li r estituirà nessun tribunale».
La strategia delle azioni legali, fatale anche se fa incassare un miliardo a Mps nelle transazioni con Deutsche Bank e Nomura, è una scelta che Viola condivide con l’ex presidente Profumo. Ma a lui va meglio: specie per l’amicizia con Paolo Gentiloni, presidente del Consiglio nel 2017 quando il Tesoro indica il banchiere uscito due anni prima da Mps come capo di Leonardo. Profumo non ha alcuna esperienza nel settore difesa: difetto rilevato da molti investitori, anche vendendo l’azione in Borsa. Ma nel frattempo se l’è fatta, nei due mandati triennali a capo del gruppo, scaduti sei mesi fa, senza che la condanna in primo grado del 2020 lo ponesse in discussione.
Come uno zero in schedina: 20 anni di errori in Mps
Ma se nessuno per la giustizia è colpevole, a chi tocca la più grave crisi bancaria italiana recente? I manager passati da Siena hanno pesanti responsabilità. Per diverse gestioni, in un quindicennio, hanno guidato Mps alla rovina, con un misto di incompetenza, ambizioni personali, consociativismo, miopia, mai in grado di mediare tra il mercato e la Fondazione locale, scatola vuota tramite cui la politica indirizzava la banca. Una serie di sistematici errori di strategia o tempismo compiuti tra il 1999 e il 2016, che hanno imposto il salvataggio dello Stato. “Come fare uno zero in schedina per 15 anni”, si dicono i vecchi manager tra loro.
A fine anni ’90, Mps è una banca con discreto posizionamento e patrimonio, ma con modello di business obsoleto, da banca commerciale regionale. Un primo tentativo di innovarlo, nel 1999, vede i vertici Divo Gronchi e Pierluigi Fabrizi rilevare la Banca del Salento, poi ridenominata Banca 121. La 121 era specializzata nei servizi online: roba da pionieri. E Mps prova a importarne il modello, impersonato dal manager Vincenzo De Bustis, pupillo dei soci pugliesi e di Massimo D’Alema, che da capo della preda diventa capo del compratore. Ma “l’eccesso di innovazione” insito nei prodotti d’investimento venduti – che non reggono i rovesci di Borsa legati alla bolla internet – guasta la reputazione di 121, fa fiorire le cause legali e rovina l’acquisizione, pagata ben 2.500 miliardi di lire. De Bustis ne è travolto e lascia Mps nel 2003. Siena torna all’antico, nominando il provveditore della Fondazione, Emilio Tonini. E anche le lunghe trattative per fondersi alla pari con Bnl sfumano, nel timore che le redini sfuggano dalle mani locali. Il modo per declinare crescita e “senesità”, in una fase di fermento in cui le banche cercano di ingrandirsi, diventa un rovello a Siena. Ma prima dell’errore fatale c’è tempo per altro. Al posto di Tonini dal 2006 arriva Antonio Vigni, dalla pianificazione interna. Una delle sue prime mosse, suggerite dai consulenti di Mc Kinsey, è vendere le fabbriche prodotto assicurative, nel risparmio e nei titoli (Intermonte), nella convinzione che nuove norme in arrivo avrebbero complicato i conflitti d’interesse tra distributori e “produttori”. Le fabbriche prodotto, come noto, nel decennio 2012-2022 hanno invece fatto la fortuna di tutte le banche, quando i tassi azzerati hanno ridotto il margine d’interesse. Mps decide allora di fare una grande acquisizione. Ma, al di là di tutte le critiche possibili e già scritte su prezzo, assenza di perizia contabile e modi del finanziamento su Antonveneta, l’errore capitale è non capire che sulla finanza sta per scatenarsi la tempesta del secolo. L’annuncio è del novembre 2007, i primi due fondi di Bear Stearns investiti in mutui subprime sono saltati da tre mesi, Lehman fallisce l’anno dopo e i tassi tornano a salire. Una croce per una banca che si è appena indebitata per 10 miliardi.
Tra l’altro Antonveneta è concentrata nel Triveneto, il Far West delle Pmi, che nelle serie storiche di Bankitalia mostrerà i tassi di default più alti. I senesi, entrati sbilanciati nella crisi ora cercano miliardi tra depositi e mercato pagando tassi doppi, o tripli, rispetto al 2007. Così, in una spirale, iniziano a prestare ai debitori peggiori. Una banca che “compra” il denaro pagando il 5% o più non lo può prestare ai soggetti più solidi: deve andare da chi barcolla, magari scartato dalle banche rivali. Questo fanno Mussari & Vigni intorno al 2010, sperando che l’Italia finanziaria sia al riparo dalla crisi Usa, perché sa poco l’inglese. Uscire dalla mischia palla al piede, pensando che il peggio sia alle spalle: mentre il peggio arriva nel 2011, quando i creditori dell’Italia silurano Silvio Berlusconi e nel loro piccolo anche Mussari & Vigni dal Monte. Con Viola, e poco dopo Profumo, inizia il revisionismo contabile, e strategico. Ma nessuna discontinuità si vede sui crediti prima erogati, che mutano velocemente in sofferenze. Non rimborsare il cane che affoga diventa lo sport dei clienti di Mps, che nei soli esercizi 2012-2015 perde 10 miliardi sul credito. E quasi altrettanti li perde da allora, quando il vertice guidato da Marco Morelli e poi da Guido Bastianini proverà, con fatica e alterne fortune, a ripulire l’attivo. Tra i grandi beneficati, poi morosi, la Sorgenia della famiglia De Benedetti, gli immobiliaristi Zunino e Mezzaroma (Impreme), l’ideatore dell’interporto di Nola e socio di Ntv Gianni Punzo, le varie partecipate pubbliche toscane. Altro che derivati/pronti contro termine: il dissesto del Monte è un fatto di prestiti mal erogati.
Gli sbagli della politica: da “abbiamo una banca?” a oggi
Attorno a Mps si sono giocate battaglie politiche furibonde e a favore di telecamere sono state costruite tante campagne elettorali, come quelle che hanno portato i grillini in Parlamento nel 2013, e prima quella del centrodestra berlusconiano che sperava nel 2006 di fermare i Ds e l’avanzata di Romano Prodi. Proprio tra 2001 e 2005 inizia il percorso che porta al disastro la banca. Legata al mondo della sinistra, del sindacato, Cgil soprattutto, delle coop rosse, ma un conto a Mps lo aveva anche Silvio Berlusconi. Perché a Siena il consociativismo esiste da secoli, ben mascherato: e in quegli anni un altro editore in carriera con ottime entrature al Monte – Denis Verdini – pubblicava un foglio molto letto in città.
Nei primi anni Duemila sindaco è Maurizio Cenni, anima Ds, e a capo della Fondazione è arrivato un rampante avvocato calabrese con studi a Siena:Giuseppe Mussari, responsabile della campagna vincente di Cenni e per questo ricompensato poco dopo. La senesità è in quegli anni il requisito per fare carriera in Fondazione e in Mps. La difesa del territorio spetta a due autorevoli ex ministri eletti nel collegio di Siena: Franco Bassanini e Giuliano Amato. A rompere quel patto arriva la corrente di Massimo D’Alema, che aveva voluto l’acquisizione di Banca 121 e l’insediamento di De Bustis al Monte. Nel 2005 questa area diessina spinge per creare un polo unico tra Mps, Unipol e la Bnl. Regista, il dominus di Unipol Giovanni Consorte. C’è un incontro a Roma, ci vanno i soci forti della Fondazione Mps, a partire da Cenni. Ci sono anche Mussari, Consorte e altri. L’accordo sembra fatto, tanto che poi, in un’intercettazione divulgata illegittimamente, emergerà la famosa telefonata tra Consorte e Fassino: “Quindi abbiamo una banca?”, dice l’allora braccio destro di D’Alema, visto che Unipol era il cuore delle coop rosse. Tornato a Siena Cenni, che all’incontro non aveva parlato, rilascia un’intervista al
Sole 24 ore
per dire che dell’operazione con Unipol e Bnl non si fa nulla: Mps resta in mano ai senesi. Bassanini è ben felice del naufragio del dossier, meno i dalemiani con il deputato Nicola Latorre che definisce la Fondazione “simbolo della conservazione”. Intanto il centrodestra avvia una campagna pesante contro i Ds dopo che
Il Giornale
pubblica l’intercettazione Fassino-Consorte. Ancora non era esploso il bunga bunga berlusconiano, ma pochi anni dopo Giulio Tremonti per attaccare Pierluigi Bersani dice: “Pensi al banca-banca”.
Oggi Fassino a
Repubblica
parla di “una grande occasione mancata”: «Sono stato vittima di una campagna diffamatoria, la mia era stata solo una battuta per dire che “loro” di Unipol avevano adesso una banca e che rappresentava un successo per il movimento cooperativo. Quella – dice Fassino sarebbe stata una operazione che avrebbe creato un grande gruppo bancario, salvato il Monte ed evitato di far finire la Bnl in mani francesi. Per sbarrare la strada furono usati argomenti privi di fondamento come la inconciliabilità tra attività bancarie e assicurative. Segnalo che oggi tutti gli istituti di credito, a partire dai più grandi, sono bancassicurazioni. La verità è che dava fastidio che una azienda del movimento cooperativo, riferibile al mondo della sinistra, entrasse nel mondo bancario. Ricordo quel che, con molta supponenza, mi disse un autorevole esponente confindustriale: “ma che c’entra la cooperazione con le banche, si occupino dei supermercati”. L’ingresso di Unipol nel mondo bancario dava fastidio a molti anche nel mondo politico, compresi settori del centrosinistra. Il centrodestra berlusconiano era contrario e scatenò una campagna feroce contro di me: ma a tutti ricordo che per quella intercettazione pubblicata in maniera illegittima io sono stato risarcito. Segnalo pure che i pregiudizi e le ostilità non hanno impedito a Unipol di crescere come soggetto finanziario e bancario, come dimostra la sua presenza in Mediobanca e in Bper. Mentre sappiamo tutti quanti travagli ha passato Mps».
Dopo lo stop a Unipol, con i favori di Bassanini, Amato e del sindaco rieletto Cenni, Mussari passa dalla Fondazione a guidare la banca. E brucia le tappe, a modo suo: diventa presidente dell’Abi e nel 2008 con Antonveneta avvia il calvario di Mps. Al governo torna Berlusconi e al Tesoro c’è Tremonti, che inventa un’emissione di bond per Mps: un tentativo di non far saltare un avamposto che ha anche molti legami coi berlusconiani, sussurrano a Siena. E da ministro attacca la sinistra che ha fatto crollare Mps, salvo dimenticare certe consulenze che lo studio Tremonti aveva dato su operazioni che poi lui definirà “marginali”. In quegli anni in città arriva anche il rampante Matteo Renzi sindaco di Firenze, che sigla un accordo politico con i vertici Mps per nominare nella società Firenze Parcheggi un suo fedelissimo allora poco noto: Marco Carrai. Attorno a Mps tutto si regola, tutte le tensioni si sopiscono. Ma anche Renzi poi farà del Monte un’istanza di campagna elettorale contro la “ditta” che lo aveva affossato. Concetto ribadito fino ad anni recenti da Maria Elena Boschi: «D’Alema e i suoi amici hanno ridotto così Mps». Tant’è, dalla sua crisi in avanti sul Monte si vincono (e perdono) molte elezioni: il centrodestra dal 2013 elegge il sindaco, fatto impensabile nella “città rossa” dal Dopoguerra. Anche qualche mese fa ha vinto, malgrado l’impegno di Elly Schlein comiziante in piazza del Mercato. E attorno a Mps balla, proprio dal 2013 alla vigilia della campagna elettorale nazionale, il fondatore dei M5s Beppe Grillo. A gennaio di quell’anno cruciale, tra scandalo bancario in fieri e vicine elezioni, dorme all’Hotel Nh, di fianco al tribunale, presenzia all’assemblea Mps come delegato dei piccoli azionisti e vi tiene uno show elettorale. Tornerà anche all’assemblea 2014 dove attacca: “Questa è la mafia del capitalismo”. Intanto è morto in circostanze non chiare il braccio destro di Mussari, David Rossi: e proprio i grillini, arrivati in Parlamento, chiedono una commissione parlamentare d’inchiesta su Rossi. La faranno quando vanno al governo, nel 2018. Giuseppe Conte, alleato della Lega nel primo mandato, conferma a capo della banca Marco Morelli (indicato da Renzi) anche se Lega e grillini senesi vorrebbero un nome più “vicino” ai gialloverdi. Quando nasce il Conte 2 arriva Guido Bastianini, scelto dai M5s. La politica ha una leva diretta sulle nomine ora che il Tesoro è diventato socio forte. Chi prima criticava le manovre della sinistra sulla banca oggi litiga a viso scoperto per guidarla. E a far da tramite tra Siena e governo sul Monte è un deputato di FdI, Francesco Michelotti.
David Rossi, l’unica vittima
È morto la sera del 6 marzo 2013. Ed è l’unica certezza sulla scomparsa di David Rossi, capo della comunicazione di Mps negli anni della grande ascesa e del crollo. Per la procura di Siena si è trattato di suicidio. Per i familiari, l’ex moglie Antonella Tognazzi su tutti, no. La battaglia va avanti da quasi 10 anni. La Commissione parlamentare ha affidato ai carabinieri del Ros ulteriori verifiche sulla caduta di Rossi dalla finestra dell’ufficio, concludendo che la risposta “più plausibile” è sempre il suicidio. Ma “plausibile” non basta alla famiglia e al suo legale Carmelo Miceli, ex deputato Pd: dopo aver consegnato in commissione la nuova perizia del professor Francesco Introna, che descrive alcune ferite come provocate da una colluttazione precedente, famiglia e avvocato sono pronti a riaprire il caso in tribunale. La sera della morte di Rossi è il 6 marzo 2013, circa alle 20 si sente un tonfo in vicolo di Monte Pio, una stradina che costeggia la sede centrale di Mps. Alle 20,35 arriva una telefonata al 118: «Venite presto c’è un uomo a terra nel vicolo accanto a piazza Salimbeni». Poco dopo arriva una volante della polizia e scende l’ispettore Livio Marini. Chi ha chiamato la polizia? Forse un passante che ha visto Rossi a terra? Dall’unico filmato sequestrato per pochi minuti dalle telecamere attorno alla piazza si vede un’ombra, che s’avvicina e poi scompare. Nessuno cercherà mai di capire chi e perché ha chiamato la polizia. E di chi era l’ombra. Marini dice alla Commissione parlamentare: «Appena facciamo i primi passi nel vicolo vedo un uomo che cerca di sorpassarmi. Io lo afferro per il braccio e gli chiedo ‘Lei signore dove va?’. Risponde: “Sono il colonnello Aglieco, ero qui per comprare le sigarette». La competenza formale è della polizia ma sul luogo interverranno anche i finanzieri. Intorno alle 21 arrivano il pm di turno Nicola Marini e i colleghi Aldo Natalini e Antonino Nastasi. Nessuno chiama però il procuratore: e normalmente in questi casi va solo il magistrato di turno. Qui invece si muovono tre magistrati, due forze di polizia e poi la Finanza, chiamata da Nastasi. Nasce da questa confusione di uomini e ruoli tutto quel che verrà dopo: indagini della procura di Genova su eventuali omissioni dei colleghi senesi, archiviate. Indagine della procura di Siena su eventuale morte non per suicidio, archiviata. E poi un hard disk distrutto, copie forensi dei pc di Rossi sparite o inutilizzabili. Nel mezzo battaglie legali, perizie e controperizie. E stranezze mai risolte. Una la rivela l’Espresso: la relazione della polizia postale data al 7 marzo 2013 la mail inviata da Rossi all’ex ad Fabrizio Viola in cui annuncia il suicidio. Analizzando il disco rigido di uno dei due portatili nell’ufficio di Rossi si trovano due versioni della mail con oggetto «Help» e la frase «stasera mi suicido». Entrambe le versioni hanno data di creazione 7 marzo ore 11,41 (il giorno dopo la morte di Rossi) ma risultano inviate il 4 marzo alle 9,13. Scrive la polizia postale: «Va rilevata l’anomalia». Viola, che dopo aver ricevuto questa mail continua, il 4 marzo, a inviare mail a Rossi parlando d’altro, sostiene di non aver mai letto il messaggio sull’intenzione di suicidarsi. La vicenda della mail verrà derubricata a “banalità” in commissione Parlamentare, dove i tecnici dei Ros spiegano che i software fanno spesso questi errori. Ma perché la polizia postale non ha chiarito subito l’anomalia? Ora gli eredi di Rossi sono pronti a una nuova causa in sede civile. Riguarda un’assicurazione che Mps stipula per i dipendenti, e vale un milione. Secondo i legali di parte, Rossi è morto sul luogo di lavoro: una prima causa civile è stata archiviata, per omesso soccorso. La seconda causa riguarderà invece la polizza: la famiglia ritiene che per la morte spetti il rimborso, la banca no. Tra l’altro, il Parlamento presto avvierà la nuova commissione d’inchiesta su Rossi. Anche lì gli eredi proveranno a far valere la relazione Introna, che sul corpo riscontra lesioni “che non sembrano avere genesi nell’impatto al suolo». Il caso David Rossi continua.
Ma Siena è già oltre “babbo Monte”
Tanti colpi e contraccolpi hanno rotto il cordone ombelicale tra il Monte e Siena. La divergenza è iniziata almeno dal 2016, quando Fondazione Mps dopo aver perso 7 miliardi ha smesso di seguire le ricapitalizzazioni della banca, quasi azzerando la quota. «I senesi vivono una sensazione di scampato pericolo» racconta Alfredo Monaci, imprenditore della Siena che conta e già seduto in vari cda del gruppo Mps. «Ma ora che la banca è tornata attraente per una fusione ci si torna a preoccupare. Il governo spinge per il terzo polo italiano, ma da qui sembra preferibile un compratore straniero, che manterrebbe la direzione generale in città». Dopo i recenti tagli, Mps impiega a Siena circa 800 persone. Una frazione dei 3 mila dei tempi d’oro in una città di 50 mila abitanti. «Il tessuto produttivo, incardinato sui tre pilastri vino-farmaceutica-banca, sta cambiando, con la banca meno agganciata al contesto: il che fa vacillare anche la farmaceutica, tra i debiti di Toscana Life Sciences e la falsa partenza del Biotecnopolo, che suscita forti polemiche politiche», sostiene Monaci. Restano, invece, le perdite sulle azioni. Romolo Semplici, storico esercente, stima che cittadini e dipendenti Mps locali abbiano perso «tra 2 e 3 miliardi». Da un decennio molti di loro cercano una verità, oltreché di riavere qualcosa. Ma la recente piega dei processi complica le cose: e finora nessuno ha mai rivisto un euro. «Aspettiamo le motivazioni della nuova sentenza. Certo siamo stupiti. Tanti azionisti traditi non capiscono le responsabilità di chi ha gestito Mps e di chi doveva controllare». Ma anche per lui, ormai, «dopo le forti critiche al Pd oggi c’è voglia di lasciarsi tutto alle spalle, e il nuovo governo è pronto ad appuntarsi come un successo la vendita della banca, malgrado potrebbero affiorare minusvalenze per miliardi». Sul 25% ceduto in Borsa un mese fa il governo ha perso 1,8 miliardi sui costi storici (ma ha parlato di “plusvalenza del 50%”, stimandola sul valore di carico 2022). Vendendo oggi l’ultimo 39% il Tesoro materializzerebbe oltre 4 miliardi di perdita.
La vicenda di Mps, storicamente vicina alla sinistra, è anche quella degli appetiti della politica che per anni, divisa in fazioni, ne ha pilotato l’azione destabilizzandola e portandola al dissesto insieme a 10 anni di inchieste giudiziarieRestano ancora molti dubbi sulla morte di David Rossi, braccio destro di Mussari a capo della comunicazione di Mps
La famiglia non crede al suicidio su cui ora continuerà a indagare una commissione parlamentare