Sul Pd di Elly Schlein fino a qui mancava il grande classico del fuoco amico. È arrivato ieri in mattinata, rivelato dalla testata Politico. La presidente del gruppo Socialisti&democratici, la spagnola Iratxe García Pérez, ha mandato ai suoi eurodeputati una nota che contiene un link per partecipare a un sondaggio per cambiare nome: passare da “Gruppo dell’alleanza progressista di socialisti e democratici” a “Gruppo del partito del socialismo europeo”. Così, come se il nome non fosse “la cosa”. In particolare proprio per il Pd, la seconda forza del raggruppamento, e soprattutto con un pedigrée di travagli nominalistici tutt’altro che trascurabile.

La presidente informa che della vicenda ha parlato in diversi confronti con i compagni di Bruxelles; nel 2009 il gruppo dei socialisti aveva cambiato nome, proprio per accogliere il Pd, che non di soli socialisti è composto (allora solo il cattolicissimo Beppe Fioroni votò no, dopo un discorso-sermone di due ore). Ora però «con l’ingresso del Pd nel Pse, l’utilizzo di una dicitura diversa per il gruppo rispetto al partito non è più necessaria». Anzi, in vista delle europee del 2024, serve ogni sforzo «per rendere più semplice e chiara l’identità del partito».

Il tema non è centrale, almeno per la maggior parte dei gruppi che aderiscono a S&D: quasi tutti hanno nel nome il socialismo o la socialdemocrazia. Per il Pd invece rischia di essere deflagrante. Anche perché la proposta arriva mentre nel partito italiano si consuma un delicato dibattito sul ruolo dei cattolici dopo l’avvento della nuova segretaria. Beppe Fioroni, Enrico Borghi e Caterina Chinnici se ne sono già andati denunciando la perdita di ruolo nei nuovi assetti. Lorenzo Guerini, capo della corrente Base riformista, e Pierluigi Castagnetti, presidente dell’associazione degli ex Ppi, hanno chiarito che il Pd resta la loro casa e che la nuova segretaria dovrà tenerne conto, mentre compie le sue sterzatine a sinistra. Ma da fuori Matteo Renzi lancia quotidianamente ami a quelli che non si sentono pienamente rappresentati dal nuovo corso.

Il cambio di nome dunque sarebbe una decisione delicata. Che però gli eurodem scoprono all’improvviso, quando già è partito il sondaggio che ha come deadline il 12 maggio. Per il Nazareno è un risveglio brusco. Deve subito far filtrare il suo no. «Il cambiamento del nome del gruppo non è mai stato in discussione», dice un’indiscrezione che finisce sulle agenzie. Viene escluso che la segretaria abbia espresso una disponibilità, cosa che invece la testata europea riferisce.

«UNO SBAGLIO DA NON FARE»

Parte così la contraerea dei democratici italiani. «La nostra forza è nell’unità delle nostre differenze. La famiglia progressista si deve allargare, non restringere. Per questo l’ipotesi di modificare il nome sarebbe uno sbaglio che non va commesso», avverte Guerini.

In molti arpeggiano sullo stesso spartito: Filippo Sensi, Lia Quartapelle, Debora Serracchiani, Dario Parrini. Ma anche da sinistra, come fa l’indipendente Massimiliano Smeriglio, fra i primi a dare l’allarme: «Iniziativa estemporanea sbagliata, nel merito e nel metodo. Nel merito perché siamo in una fase in cui le forze progressiste devono allargarsi non dare risposte identitarie; nel metodo perché una cosa così importante non si decide con un sondaggio».

Opposto il parere di Andrea Orlando. Ricorda la “battaglia” del 2009 per far cambiare il nome del gruppo proprio perché il Pd non aderiva al Partito dei socialisti europei ma voleva far parte del gruppo di Strasburgo. Ora però il Pd ha aderito anche al Pse: «Oggi, quindi, il gruppo si può tornare a chiamare socialista. Dove è il problema?».

SCARSA AUTOREVOLEZZA

Il problema c’è, e non è solo quello dei cattolici, che pure si troverebbero assai a disagio a essere definiti socialisti. Il problema è lo sfilacciamento del gruppo Pd a Strasburgo e Bruxelles: dopo il congresso, e in vista delle prossime liste alle europee, in troppi evidentemente sono distratti dai collegi o dalle questioni interne. Sulle linee telefoniche Roma-Bruxelles infatti volano stracci.

Dal Nazareno si chiede conto di come è possibile che il gruppo proceda a una proposta del genere senza che il Pd ne sappia nulla. Anche perché il Pd ha un suo rappresentante nel “bureau” S&D, che è la vicepresidente Elisabetta Gualmini; e alcune cariche prestigiose nel parlamento. E poi c’è il capodelegazione Brando Benifei. Ma il sospetto è un altro ancora, e velenoso: l’episodio può essere un segnale della scarsa considerazione in cui è tenuto Pd italiano, un deficit di autorevolezza dopo la scomparsa di David Sassoli?

NON CAMBIA NULLA

Benifei corre ai ripari. Il gruppo S&D «sta portando avanti una discussione per impostare il lavoro in vista delle prossime europee. Tra i vari punti oggetto di valutazione c’è la denominazione», spiega, ma la questione sarà decisa «a livello delle leadership dei partiti» e comunque «da parte nostra ci sarà il supporto per il mantenimento dell’attuale denominazione». Gualmini, da Cracovia dove è a un seminario proprio con la presidente Garcia Perez, assicura di aver sentito con le sue orecchie da lei stessa che «nessuna decisione è presa» e che il sondaggio «è solo esplorativo». Stamattina il gruppo Pd farà una riunione online con il responsabile Esteri Peppe Provenzano. Si prevedono pirotecnie.

Resta il fuoco amico. Restano gli sfottò dei renziani all’indirizzo dei cattolici rimasti nel Pd: ve l’avevamo detto che è in corso «una mutazione genetica». Ma soprattutto, per la segretaria, resta una lezionaccia sui guai che possono arrivare da un gruppo di parlamentari, se ci sono troppi distratti. O malpancisti.