Mancano sei mesi alle elezioni europee e al voto nelle Regioni. Per motivi diversi, in questa Italia “sonnambula” raccontata dal Censis, destra e sinistra sembrano prigioniere dei loro incubi. Da una parte Giorgia Meloni, che cerca una quadra tra i pasticci del suo partito e i bisticci con gli alleati. Dall’altra Elly Schlein, che non sa cosa cercare in un partito confuso e in un “non-alleato” malfido. Ma tutte e due le leader paiono agite dalla stessa tentazione: scendere in campo da capoliste in tutte le circoscrizioni, trasformando la competizione europea nella prima grande sfida tra donne, in un Paese che le donne, in politica, le ha quasi sempre snobbate o svilite.
Messa così, la storia sarebbe persino affascinante. La Sfavorita della Garbatella, che in cinque anni ha sfondato il tetto di cristallo portando i post-missini dalle fogne alla stanza dei bottoni. E l’Illuminata di Lugano, che nessuno aveva visto arrivare e che ora vuole piantare “l’alternativa progressista” nel campo largo dove una volta crebbe l’Ulivo.
Underdog contro Upper Class, direbbe qualcuno. Simul stabunt, simul cadent,
aggiunge qualcun altro, che vede un destino comune in queste due leader, quasi necessarie l’una all’altra. Non è così. Un abisso separa Meloni da Schlein. E ad oggi la “sfida elettorale” tra le due è solo una suggestione da talk show.
La presidente del Consiglio ha i suoi problemi. È zavorrata dal suo passato, non tanto il fantasma del Duce quanto la fiamma del Msi, che le riscalda il cuore e le impedisce di dire una sola parola sui fatti di Acca Larentia. Ma nel Paese della Grande Banalizzazione può planare senza troppi danni sopra quei boschi di braccia tese. Sono vergogne che appartengono all’album di famiglia della sua ultradestra. Fanno scandalo nell’Europa moderata di Manfred Weber, ma non nell’Italia intorpidita dai tg di regime e dai giornali-parenti. Fratelli d’Italia è un’accozzaglia di impresentabili e incompetenti, ex e neo-fascisti, avventurieri e pistoleri, arruffa-popolo e acchiappa-poltrone: ma è il suo partito, non se ne può liberare. Lo può però “militarizzare”, ed è quello che farà: del resto chi può congiurare contro di lei? Sua sorella Arianna? Suo cognato Lollo?
Restano gli alleati. Tajani la stressa dal centro, sulle intercettazioni e il Superbonus. Salvini la logora, scavalcandola a destra su tutto: dal Mes al salva-balneari, dagli attacchi alla Ue agli abbracci con i neo-nazi tedeschi, dal Ponte sullo Stretto fino alla difesa di Chiara Ferragni. Ora tutto precipita sulle candidature elettorali. Ma anche qui, Meloni sa che alla fine, nonostante la fumata grigia di due giorni fa, sarà lei a dare le carte. In Sardegna, dove il boss della Lega si dispone già a una disonorevole ritirata, magari in cambio del terzo mandato dei governatori. E in Europa, dove lui stesso ha già declinato l’invito a “metterci la faccia”, consapevole che la perderebbe miseramente nella conta dei voti con la “nemica Giorgia”. Anche questa, per la premier, è un’altra prova di forza da superare a ogni costo e senza rischi. Per la Lega, salvo nuove ma inverosimili pazzie di Matteo, non ci sarà un Papeete d’inverno.
Quanto a Forza Italia, ci sarà solo da aspettare giugno, per spartirsene le spoglie. Certo, resta l’Italia da governare, e Meloni lo sta facendo male, tra nuovi condoni e vecchi bavagli. Per abolire l’odiato Reddito di Cittadinanza ha lasciato un milione di derelitti senza un sussidio, in una nazione dove ci sono già 6 milioni di poveri assoluti. La reputazione scende, ma l’occupazione sale. La sanità marcisce, ma la Borsa fiorisce. Avanti così, la nave va. Tanto chi la può affondare? Solo il “fuoco amico”, che tra sei mesi sarà spento.
E qui veniamo alla leader del Pd. A un anno esatto dal trionfo delle primarie, Schlein fatica. Non dice quasi mai nulla di sbagliato, dai temi sociali ai diritti civili, dal lavoro all’immigrazione. Ma non detta l’agenda, nella tattica e nella strategia. A volte perde occasioni irripetibili. Se la premier dice che le tasse sono «pizzo di Stato», la devi inchiodare per la vita a quella nefandezza etica. Se un cowboy nero amico di Delmastro spara al cenone di Capodanno non puoi aspettare che finiscano le Feste per chiederne conto. Se la Rai ogni giorno che dio manda in terra passa le veline della nuova Agenzia Stefani non puoi fare finta di niente. Se da Santanché aSgarbi l’esecutivo è un sabba di indagati non puoi lasciare ai 5S il primato della “Questione morale” che fu di Enrico Berlinguer.
Schlein aspetta, esita, insegue. Sull’auto-candidatura a capolista alle europee, la segretaria avrebbe dovuto giocare d’anticipo.
Annunciandola, ma lanciando lei la sfida a Meloni. O escludendola, raccogliendo il suggerimento di Prodi («candidarsi dove sai che non andrai svilisce la democrazia»). Non ha fatto né l’una né l’altra scelta. E così si è fatta incastrare dalla premier, che furbescamente l’ha “scelta” per la contesa politica e televisiva. A questo punto, qualunque decisione prenda, Schlein sarà perdente. Se si candida, Meloni la batterà nelle urne. Se non si candida, il mondo penserà che ha paura.
Stesso ragionamento sulle regionali, dove Schlein rincorre l’Avvocato del Popolo. Molto responsabile, ma troppo remissiva, la leader cede il passo a Conte, che se lo prende tutto perché ha un solo obiettivo: incassare un voto in più del Pd, per dimostrare che il federatore o è lui, o non è. La “vocazione maggioritaria”, con le percentuali di oggi, non è proponibile. Ma non lo è neanche la remissione minoritaria. Che spesso produce solo caos identitario, come è appena successo con il solito kamasutra delle astensioni sul voto per l’Ucraina: un incrocio che solo a spiegarlo viene il mal di testa.
A tutto questo aggiungiamo il nodo delle liste, aggrovigliato a sua volta dalle indecisioni della segretaria, sia per le quote rosa, sia per l’equilibrio tra membri della nomenclatura ed esponenti della società civile. Eppure il dramma del Pd nasce proprio dai territori.
Oggi, nell’Italia nero-blu di Meloni e Salvini, il Partito democratico governa solo 4 Regioni su 21. Per capire l’entità del disastro: dopo il voto del 2013 era l’opposto, nell’Italia rossa di Bersani e Letta la destra guidava solo 3 Regioni (Lombardia, Veneto e Liguria). Da allora è iniziato il crollo. Nel 2018 la sinistra si salva solo nel Lazio con Zingaretti, mentre la destra si prende Lombardia, Molise, Friuli e Trento. Nel 2019 c’è il primo “cappotto”: la destra espugna 5 Regioni su 5 (Piemonte, Sardegna, Abruzzo, Basilicata e Umbria).
Nel 2020 ne vince 5, ma la sinistra ne recupera 4 (le attuali, Emilia-Romagna, Toscana, Campania e Puglia).
Da allora più niente. Nel 2021 la destra riconquista la Calabria, nel 2022 la Sicilia, e nel 2023 fa il secondo “cappotto”: si riconferma in Lombardia, Friuli, Molise, e si riannette anche il Lazio. Dunque “l’amalgama mal riuscito” — per riprendere l’antica formula dalemiana — non vince un’elezione regionale da quattro anni.
Difficile che ci riesca a giugno. Tra l’altro la Sardegna ha un basso valore politico ma un alto impatto simbolico: a febbraio 2009, nonostante venisse dallo stellare 33% delle politiche, Veltroni si dimise da segretario proprio per la disfatta sarda.
Il compito di Schlein è quasi proibitivo. E purtroppo al Nazareno e dintorni si riaffaccia il solito tafazzismo: con la scusa che Elly non ascolta nessuno, capibastone e cacicchi non la aiutano ma la osservano in semi-silenzio, in attesa che vada a sbattere contro il muro di Giorgia. Anche per questo il “duello rosa” è solo una balla retorica. Meloni è il partito, e ora vuole i pieni poteri anche sulla coalizione. Schlein non è la coalizione, e ancora non sa se ha un partito.