Franco La Cecla
Due antropologi faccia a faccia sulla tendenza a farsi narratori: «Oggi è necessario raccontare storie che intercettino le paure del cambiamento»

L’antropologo svedese Erland Nordenskiöld durante la sua spedizione in Colombia del 1927 – Världskultur Museet/WikiCommons

Nel mondo in piena trasfor-mazione dell’antropologia, da qualche decennio si è aperta una dimensione narrativa che è diventata sempre più importante. Ha iniziato Clifford Geertz con Opere e vite (il Mulino, 1988) e poi la strada è stata percorsa da personaggi come James Clifford ( I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, 1993) e Michael Taussig ( Il mio museo della cocaina, Milieu, 2019) . La dimensione soggettiva, ma soprattutto la scrittura è diventata una cifra che ha trasformato l’antropologia in un racconto che non ha nulla da invidiare alla letteratura. In Italia il miglior rappresentante di questa tendenza è Matteo Meschiari di cui da poco è uscito Landness, una storia geoanarchica per Meltemi (pagine 240, euro 20,00). Il suo stile molto robusto odora di William Faulkner, John Steinbeck, Gary Snyder e Wendell Berry.

 

Vorrei approfondire il tuo essere un filologo prestato all’antropologia. Nei tuoi lavori, nei tuoi libri ci sono due linee che corrono parallele: quella dell’attenzione alla geografia e quella dell’ancorarti ad essa attraverso la scrittura di viaggiatori, naturalisti, antropologi che se ne fanno interpreti. Da architetto prestato all’antropologia mi chiedo se in questi due tuoi fuochi, c’è un modo di evitare l’ortodossia della disciplina, con il suo carico di fieldwork, note di campo, dovere di dimostrare “di esserci stato”?

La ricerca sul campo è una specie di ricatto intellettuale usato da alcuni accademici per dire chi è antropologo e chi no. In base a tale assunto la quasi totalità degli scritti di Claude Lévi-Strauss sarebbe mera letteratura, ma noi sappiamo che non è così. Negli anni ho scritto testi di antropologia speculativa ma ho anche collezionato centinaia di ore di ricerca sul campo negli Stati Uniti, su spazio e wilderness, e in Francia e Spagna, per studiare le dinamiche performative di alcune forme di tauromachia. In entrambi i casi credo di essere stato un antropologo onesto.

 

Tu sei in qualche modo in Italia colui che ha percorso l’iter di una narrazione il cui modello forse è James Clifford e prima ancora Homi K. Bhabha. Hai condotto la critica letteraria lungo i sentieri delle Scienze umane, Geografia e Antropologia. Lo hai fatto spostandoti dalla letteratura comparata e dai Cultural Studies verso qualcosa di soltanto tuo, un privilegiare la scrittura più che una disciplina. Ci vuoi raccontare come è successo?

In Artico nero (2016) ho raccolto sette etnografie “impossibili” su sette popoli scomparsi. Impossibili appunto perché per andare a fare ricerca sul campo ci sarebbe voluta la macchina del tempo. In questi casi, per alcuni antropologi sarebbe meglio tacere, secondo me invece l’antropologia può sempre dire qualcosa di possibile e coerente da un punto di vista “scientifico”. La chiamo antropofiction: lo scrittore presta all’antropologo un supplemento di immaginazione, che non significa mera fantasia, ma ricostruzione speculativa e riumanizzazione di persone realmente esistite. Ovviamente questo non rientra negli steccati disciplinari, innervosisce certa accademia, ma per me è qualcosa di molto avventuroso.

Nei tuoi libri si incontrano molti maestri, persone a cui ti ispiri in un mondo che rasenta la catastrofe: chi tra questi ti è più vicino e affine?

Sicuramente Lorand Gaspar, un medico-poeta che con il suo libro Sol absolu (1972) mi ha fatto capire che è tempo di riconcentrarsi sul Sacro, a partire dalla Terra sotto i piedi. È quello che in Landness chiamo “territà”, il pensare la Terra come matrice mitopoietica.

Leggendoti si potrebbe credere che tu sia un “americanista”. In realtà so che tu hai molto a cuore la letteratura italiana contemporanea: chi in particolare?

Per quanto riguarda paesaggio ed epica dei popoli ho imparato molto da Francesco Biamonti, Sergio Atzeni e Maurizio Maggiani. Laura Pariani per la stratificazione linguistica. Laura Pugno per la visione. Credo che Marino Magliani sia in questi anni il prosatore italiano più poetico. Ci sono poi Giorgio Vasta, Marco Lupo, Davide Morosinotto, Roberto Mussapi, Ida Travi, e altri.

Parliamo di scrittura, un argomento difficile da restringere. Oggi come pensi che debba essere una scrittura che descriva la situazione in cui ci troviamo? Ripeto il “debba essere” perché nel tuo scrivere sottendi una dimensione morale molto forte.

Non credo nella distopia come strumento per aprire gli occhi su collasso cognitivo e crisi climatica. Credo che oggi vadano raccontate storie che intercettino l’inquietudine e l’angoscia attuali. Per farlo poi si può scrivere un romanzo appenninico ambientato nel Settecento o un “fantasy” esotico come Marco Polo (1936) di Viktor Šklovskij. Personalmente, per deantropizzare la fiction, punterei su tre cose: epica geologica (come in Solaris di Lem e in molte pagine di Cormac McCarthy), ritorno della megafauna (come in Born di Vander-Meer), etnobotanica fantastica (come in Terminus radioso di Volodine).

Ultima domanda: da inguaribile ottimista, leggendoti a volte ho l’impressione di un grande pessimismo, di una visione del mondo molto amara, che si basa su una lettura delle ingiustizie del mondo contro i popoli indigeni di qualunque latitudine. Facendoti una violenza, puoi raccontarci in cosa c’è da sperare, oltre che ovviamente nella scrittura?

Nell’universale predisposizione umana al mutuo appoggio, nella scuola di bambine e bambini.

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