Adriana, la barca di 35 metri su cui viaggiavano 750 migranti, tra cui 100 bambini, quasi tutti morti, naufragata nel Peloponneso, all’altezza di Kalamata.
di Letizia Tortello
«Non vogliamo che la nave si capovolga. Per favore, aiutateci, per favore, vi chiedo per favore». Katerina Tsata ha davanti a sé due ragazzi che potrebbero essere suoi figli. Sono un egiziano e un siriano, hanno appena vent’anni e piangono senza fermarsi. Uno accanto all’altro abbracciati. Non si conoscevano, ma ora il dolore è troppo grande per non condividerlo. Devono uscire lo choc e la disperazione senza ritorno, dopo quel viaggio nelle acque dell’inferno, sulla carcassa chiamata Adriana, la barca di 35 metri su cui viaggiavano 750 migranti, tra cui 100 bambini, quasi tutti morti, naufragata nel Peloponneso, all’altezza di Kalamata, mercoledì alle prime luci dell’alba.
Sono vivi, i due giovani. I morti, invece, sono nell’abisso delle acque greche, sono stati inghiottiti, sono a 4000 metri di profondità. I due ragazzi, siriano ed egiziano, dall’ospedale di Kalamata, dove sono ricoverati, raccontano all’infermiera della Croce Rossa greca le ultime frasi che hanno sentito urlare al telefono prima di riuscire a lasciare la barca che affondava. Quello al largo di Pilo è il secondo disastro più devastante mai accaduto nel Mediterraneo da Lampedusa 2015. All’ora, i morti e i dispersi erano 1000. Oggi, i salvati sono 104 su 750, 78 i morti accertati, trasportati al cimitero di Schisto Korydallos, periferia di Atene. Tra le salme recuperate, ci sarebbe anche una donna. I corpi annegati per sempre, invece, sono molto probabilmente 600. Una cifra che fa rabbrividire, come spiega Gianluca Rocco, capo missione dell’Oim in Grecia, che ha predisposto il personale, psicologi e interpreti, per correre ad assistere i migranti vivi, accolti fino a ieri sera nelle tende al porto di Kalamata, e che oggi saranno trasferiti nella capitale. Lo scalo si è riempito di parenti, arrivati in aereo da mezza Europa, per vedere coi loro occhi se i loro cari ci sono ancora.
«Mi ricorda Lampedusa, è un massacro – dice Rocco –. Quel tipo di barche così grosse normalmente dalla Libia non vengono verso la Grecia, vanno verso l’Italia. Quel punto è il più profondo del Mediterraneo, le ricerche sono praticamente impossibili». I sommersi sono andati giù come topi in trappola. Probabilmente, «il motore era in avaria, oppure l’enorme quantità di persone che si è spostata velocemente ha fatto perdere stabilità, oppure il capitano è scappato», dice ancora. Le testimonianze sono un pugno allo stomaco, una scena che non può essere pensata per come si è compiuta, se si considera che almeno 100 bimbi, alcuni molto piccoli, erano imprigionati nella stiva, si pensa insieme alle donne, mamme e sorelle, per difendersi dalle condizioni avverse del mare.
Nella cittadina della costa occidentale del Peloponneso non c’è rabbia, ma pena infinita. Ha le lacrime agli occhi anche lui, Manolis Makaris, il medico che ha accolto i superstiti nell’ospedale di Kalamata, e che per tutta la giornata di ieri ha prestato il suo cellulare per aiutare i vivi a contattare i parenti. Tra i soccorsi 47 sono siriani, 43 egiziani, 12 pakistani e 2 palestinesi. Tra i sopravvissuti 10 minorenni, 5 egiziani e 5 siriani. «Mi sono commosso quando mi hanno detto dei piccoli a bordo. Il telefono non smette di squillare, una raffica di telefonate e foto mandatemi dai parenti dei dispersi nella speranza che potessi sapere se fossero vivi. Molti erano dello stesso villaggio. Nei messaggi, mi chiedevano disperatamente se avessi riconosciuto i loro ragazzi, i bambini”. L’infermiera della Croce Rossa ci spiega le condizioni in cui li hanno trovati: disidratazione, sotto choc, con bruciature evidenti del sole. Alcuni avevano polmonite da materiali inseriti, altri rabdiomiolisi. «Un figlio cercava la madre», spiega ancora. A dimostrazione che le donne c’erano. Anche se i sopravvissuti sono tutti uomini tra i 15 e i 40.
Hanno viaggiato per 5 giorni senza più acqua e pensavano che sarebbero morti: già prima del naufragio qualcuno era deceduto per il caldo e la disidratazione. «Hanno rifiutato qualsiasi aiuto», tenta di spiegare il portavoce della Guardia Costiera greca, il capitano Nikolaos Alexiou. «Questa barca non era idonea alla navigazione, e non importa quello che alcune persone a bordo potrebbero aver detto, la nozione di pericolo non può essere discussa», tuona Vincent Cochetel inviato speciale Unhcr. Secondo la ricostruzione, il Centro di Ricerca e Soccorso era stato informato martedì mattina del peschereccio sovraffollato dalla Centrale Operativa di Roma, che aveva localizzato l’imbarcazione dopo la chiamata di un’attivista. Il primo contatto con la barca sarebbe avvenuto, dopo difficoltà, alle 14. All’1:40 di notte, una persona a bordo ha lanciato l’allarme: il motore è in avaria. Alle 2, la barca è stata vista sbandare, fino a capovolgersi.
Le autorità greche hanno arrestato 9 egiziani sospettati di essere gli scafisti. Le indagini proseguono, sembra che alcuni trafficanti siano tra i sopravvissuti. Hanno chiesto tra i 4 e i 6 mila dollari a migrante. Se si fanno i conti, si raggiunge una cifra impronunciabile: 4,5 milioni di euro. Soldi finiti nelle mani di chissà chi. Chi avrà per sempre sulla coscienza 600 persone, giovani e che volevano solo una vita migliore in Europa. Il sogno dell’Europa, il cimitero dell’Europa.