
PENNE SCONOSCIUTE: LA NECESSITÀ DI CONTINUARE
1 Dicembre 2025Disvelare il Santa Maria della Scala
Pierluigi Piccini
Quando dici che il Santa Maria della Scala “va disvelato”, individui il cuore del problema: non è un complesso che possa essere governato da un atto progettuale totale. La sua natura sfugge per definizione a qualsiasi schema rigido, perché è fatta di stratificazioni, sovrapposizioni, pendenze, vuoti e pieni che non si lasciano ordinare secondo una logica unitaria. È un organismo storico che si comprende solo attraverso un avvicinamento graduale, quasi tattile, e non mediante un Master Plan che distribuisce funzioni e flussi dall’alto.
Qui la fenomenologia di Merleau-Ponty offre una chiave decisiva: lo spazio non è un contenitore neutro, ma un orizzonte vissuto in cui il corpo è sempre coinvolto. È il corpo che crea lo spazio nel momento in cui lo attraversa; e allo stesso tempo è lo spazio, con le sue luci, i suoi tagli, le sue proporzioni, a plasmare la percezione e l’emozione di chi lo vive. Comprendere un luogo significa allora capire come esso orienta, sorprende, trattiene, libera. Nel Santa Maria tutto questo accade di continuo: le discese accelerano il passo, i cunicoli concentrano l’attenzione, gli affacci improvvisi aprono lo sguardo, le murature riportano alla memoria ciò che la città ha depositato nei secoli.
Un Master Plan rigido contraddice questa natura. Definisce prima ciò che il complesso “deve essere”, invece di ascoltare ciò che già è. Impone un ordine astratto dove il luogo chiede interpretazione; semplifica dove lo spazio richiede profondità. È in questa logica che si colloca anche la critica di Carlo Nepi al nuovo allestimento che ha sostituito la mostra del Vecchietta: un intervento che appare estraneo al complesso proprio perché non nasce da un confronto diretto con la sua struttura percettiva e materica, ma da un’idea esterna che non dialoga con l’edificio.
Lo stesso fraintendimento emerge in interventi artistici ospitati negli ultimi anni, come quelli di Jacob Hashimoto o di Teodora Axente: esperienze molto diverse tra loro, ma entrambe incapaci di attivare quel rapporto corporeo e percettivo con gli spazi che il Santa Maria richiede per rivelarsi davvero. Erano operazioni che avrebbero potuto instaurare un dialogo più profondo con l’architettura, ma che per come sono state inserite restano distanti anni luce dal disvelamento del luogo. Il problema non è l’arte, né gli artisti: è un approccio progettuale che continua a trattare il complesso come un contenitore disponibile, anziché come un corpo architettonico dotato di una voce propria.
A tutto questo si aggiunge una frustrazione inevitabile: stiamo tornando a discutere questioni già affrontate e chiarite con rigore dal comitato scientifico e dalla commissione presieduta da Zacchiroli, che selezionò il progetto vincitore del concorso. Ripartire ogni volta da zero significa ignorare la memoria istituzionale, azzerare il lavoro svolto e paralizzare ogni avanzamento. È come il millepiedi che non sa più quale zampa muovere e finisce per restare immobile: una metafora fin troppo esatta della condizione attuale.
L’alternativa è necessaria, non opzionale. Occorre assumere la complessità del luogo come punto di partenza, non come ostacolo. Abbandonare l’illusione del controllo totale. Accettare che l’architettura del Santa Maria della Scala si comprenda solo nella relazione tra percezione, corpo e memoria.
Solo così il complesso può essere disvelato, e non semplificato; accompagnato, e non forzato; interpretato, e non riscritto ogni volta daccapo. Solo così gli si restituisce una continuità progettuale all’altezza della sua storia, permettendo finalmente al Santa Maria della Scala di emergere nella sua verità più profonda: non un contenitore da riempire, ma un luogo da comprendere.





