BRUXELLES -Poco meno di cinque anni fa il “kingmaker” dell’Ue fu il presidente francese Emmanuel Macron. Tirò fuori dal cilindro il nome di Ursula von der Leyen per la presidenza della Commissione europea. Concordandola con l’allora Cancelliera tedesca Angela Merkel. Quella mossa fece uscire l’Unione dalla secche della paralisi, bloccata dal gioco dei veti incrociati.
A quattro anni e mezzo di distanza l’inquilino dell’Eliseo – secondo fonti diplomatiche a Bruxelles e a Parigi – vuole ritagliarsi lo stesso ruolo. Stendendo la sua tela di rapporti e diplomazie. Con al centro un nome a sorpresa: Mario Draghi. L’ex presidente del consiglio italiano è il “campione” su cui Macron vuole scommettere. Proprio per succedere a von der Leyen. Con lui il rapporto è stato sempre privilegiato. Basta ricordare il modo in cui spiegò perché è stato possibile il Trattato del Quirinale: «Perché era lui, perché ero io».
Forte di questa intesa personale, lo ha fatto sondare informalmente. Soprattutto ha cominciato a sottoporre l’ipotesi all’alleato di sempre, la Germania ora guidata da Olaf Scholz. Le grandi scelte europee corrono sempre lungo la direttrice Parigi- Berlino. Il presidente francese in diverse occasioni e con diversi interlocutori ha spiegato perché dopo le prossime elezioni europee sarebbe opportuno rivolgersi all’ex presidente della Bce. Il “Vecchio Continente” infatti sarà chiamato ad affrontare una fase nuova. Le conseguenze della guerra in Ucraina, la crescente affermazione della Cina, le elezioni americane che potrebbero ripresentare Donald Trump sulla scena internazionale e quindi isolare di nuovo l’Europa, un eventuale rigurgito sovranista e nazionalista. Insomma la tornata elettorale di giugno prossimo non è ordinaria, ma straordinaria. E necessita di risposte fuori dal comune. Per fronteggiare sfide così decisive per il futuro dell’Unione – è il ragionamento che viene svolto all’Eliseo – sarebbe consigliabile affidarsi a chi ha già contribuito a salvare l’Europa con il famoso “Whatever it takes”. Una personalità di sicuro prestigio e autorevolezza. Chi – ad esempio – può parlare a nome dell’Ue con il leader cinese Xi senza complessi di inferiorità? Chi potrebbe tenere testa alle bizzarrie di Trump? Chi non ha bisogno del consenso popolare di breve termine?
Ragionamenti che Macron ha già illustrato in maniera molto informale al Cancelliere tedesco. Per Scholz, non è un problema da poco rinunciare alla connazionale von der Leyen. Sebbene appartenente al Ppe e non ai socialisti. Eppure, a Berlino hanno presente due motivi essenziali che possono indurre a sostenere la linea francese. Il primo riguarda una possibile exit strategy per Von der Leyen: la segreteria generale della Nato che si libera proprio nella prossima primavera. Gli Usa già nei mesi scorsi avevano dato il gradimento all’attuale presidente della Commissione che si è spesa con decisione nel sostegno all’Ucraina contro la Russia. La Germania, insomma, non perderebbe una pedina importante nella scacchiera degli incarichi internazionali.
Il secondo motivo valutato dalla Cancelleria è un po’ più prosaico ma comunque molto pragmatico: Scholz potrebbe sedare una parte dei litigi della sua maggioranza. In particolare potrebbe accontentare una delle richieste avanzate dai Verdi: un ruolo nella futura Commissione.
La strada, però, non è certo in discesa. I dubbi riguardano in primo luogo Roma. Quale sarebbe la risposta del governo Meloni? È chiaro che non si può arrivare a indicare ed eleggere un italiano al vertice dell’esecutivo europeo senza l’avallo di Palazzo Chigi. La presidente del consiglio vorrebbe poter contare su un suo rappresentante nella prossima squadra di vertice. Il nome più gettonato è quello del ministro per le politiche comunitarie, Raffaele Fitto. Ma Meloni può dire di no a Draghi? Può provocare una frattura così ampia con Francia e Germania, e con l’ex banchiere centrale? Anche perché lo schema avrebbe il consenso della Casa Bianca. Il presidente americano Biden, consapevole anche dei rischi globali connessi ad una eventuale rielezione di Trump, ha fattosapere a Macron di essere disponibile a muoversi sull’Italia. Senza contare che a quel punto la leader di Fratelli d’Italia avrebbe la strada segnata per entrare di fatto nella maggioranza che gestisce l’Unione europea. Per Macron, invece, questa soluzione consentirebbe di depotenziare l’”esempio italiano” e rendere meno appetibile la corsa di Marine le Pen alle prossime presidenziali francesi del 2027.
Ma cosa ne pensa il diretto interessato. Fino ad ora Draghi ha fatto sapere di non sentirsi assolutamente in corsa per questo ruolo. Anche se il recente incarico ricevuto a settembre scorso proprio da von der Leyen per preparare un rapporto sul futuro della competitività europea gli sta permettendo di visitare tutte le cancellerie europee e di mettere sul tavolo le sue idee relative al futuro dell’Unione. Molti, poi, hanno seguito con curiosità gli ultimi interventi pubblici dopo un periodo di silenzio. «È un momento critico per l’Europa – ha detto solo dieci giorni fa – e speriamo che ci tengano insieme quei valori fondanti che ci hanno messo insieme». Presentando il libro di Aldo Cazzullo ha poi offerto una sorta di programma del federalismo europeo: «Ora è ancora più importante capire che non riusciamo ad affrontare le sfide sovranazionali europee da soli. Avere una difesa che tende a essere coordinata significa avere una politica estera che tende a essere coordinata. Occorre cominciare a pensare a un’integrazione politica europea, al parlamento europeo, che forse è il vero parlamento d’Europa. Occorre cominciare a pensare che siamo italiani e europei. Occorre reinventarsi un modo diverso di crescere. Occorre diventare Stato».
Questa candidatura imporrebbe di ridisegnare i rapporti tra le famiglie politiche europee. Draghi è un “tecnico”. Ppe, Pse e Liberali dovranno dividersi gli incarichi senza la Commissione. Ma a quel punto sarebbe un’altra partita. Di certo la strada che porta a giugno è lastricata di sorprese.