In Emilia Romagna la partita era considerata chiusa quasi dall’inizio: De Pascale, nuovo governatore e a questo punto ex-sindaco di Ravenna, era considerato un candidato forte e adatto a raccogliere l’eredità di Bonaccini, che aveva lasciato la guida dell’amministrazione per andare a Strasburgo. Quest’impressione s’è rafforzata nel corso di settimane in cui la candidata avversaria del centrodestra, la civica Elena Ugolini, ha cercato di riguadagnare posizioni rispetto ai risultati delle elezioni europee, ma il divario tra le due coalizioni è rimasto notevole. La sfida lanciata da Salvini cinque anni fa in Emilia Romagna e in Toscana – e perduta in entrambi i casi – stavolta non c’era, anche per non enfatizzare ulteriormente una sconfitta che insomma era data per scontata.
Quanto all’Umbria, non è che il centrodestra non avvertisse la debolezza della governatrice Donatella Teseo, che ambiva a succedere a se stessa dopo un’esperienza amministrativa non certo esaltante. Ma alla fine non è riuscito a produrre né una diversa candidatura, né una soluzione diversa da quella dell’aggancio del sindaco Stefano Bandecchi di Terni. Figura singolare, Bandecchi, del tutto diverso dallo Scajola primo cittadino di Imperia risultato determinante in Liguria. A Terni, centro industriale della regione aggredito da una crisi che non trova soluzioni, Bandecchi aveva vinto al Comune con una campagna basata su turpiloquio e battute sessuali, usate a beneficio di un elettorato personale simile a una squadra di ultras da stadio, che non lo ha seguito fino in fondo nel momento in cui ha abbassato le armi verso la coalizione che aveva battuto alle amministrative. Questo per dire che gli elettori non dimenticano; anzi, al contrario, ricordano molto bene.
Il centrosinistra uscito vincente con la sindaca – anche lei ex – di Assisi, Stefania Proietti, stavolta aveva azzeccato la candidata, una cattolica molto impegnata nel sociale. Glielo riconoscevano un po’tutti, anche se i sondaggi erano rimasti incerti fino alla vigilia, forse più per le condizioni generali di salute della coalizione a livello nazionale che non, appunto, per il lavoro fatto dalla candidata, accompagnata nei suoi comizi da un visibile entusiasmo, seppure non direttamente riconducibile alle sigle dei partiti che la sostenevano.
I quali, non a caso, se si vanno a leggere le prime percentuali (ma bisognerà attendere per avere un quadro attendibile) escono con risultati alterni, sui quali dovranno necessariamente riflettere, pur considerando la limitatezza della tornata a livello locale, dopo il test generale delle europee. Al Pd è andata bene, si conferma il trend positivo inaugurato a giugno e Schlein può dormire sonni tranquilli perché la sua leadership, discussa sotto altri punti di vista per l’ambiguità su alcune questioni nodali, da un punto di vista elettorale indubbiamente funziona. Per il Movimento 5 stelle, invece, la partita s’è conclusa male: fatto anche l’abbuono delle difficoltà che il Movimento affronta a livello locale, il risultato – che doveva essere un primo esperimento della nuova linea «autonomista» di Conte, deciso a mantenere le distanze dal Pd –, è deludente. Anche senza trarre, in un senso o nell’altro, conclusioni sproporzionate – e spropositate – da un giro di elezioni locali, si conferma un’ovvietà, e cioè che per vincere un’alleanza ha bisogno di buoni candidati, e una tendenza niente affatto stabilizzatrice per il centrosinistra: quando vince, è il Pd a incassare il miglior vantaggio, a nulla valgono i tentativi degli alleati minori (M5S in testa) di distinguersi e di polemizzare con il maggior alleato. È difficile che questo possa portare a rasserenare i rapporti e a migliorare in futuro la coesione della coalizione, che tuttavia rimane l’unica possibilità per la sfida più grande, fissata tra tre anni, per la guida del Paese.