Le nascite scendono, gli indici di natalità mettono l’Italia agli ultimi posti in Europa. Il sociologo Luca Ricolfi, autore nel 2019 del volume su “La società signorile di massa”, non ha cambiato idea: «La diminuzione delle nascite è frutto dell’iperindividualismo degli italiani». E avverte: «Se anche riuscissimo a raddoppiare improvvisamente le nascite, avremmo effetti positivi sul sistema previdenziale non prima del 2040».
Professor Ricolfi, gli italiani sono scesi sotto i 59 milioni. È un male?
«Di per sé non lo è. In generale e in astratto, si può benissimo essere una società ricca e fiorente anche con 50 milioni di abitanti, o con molti di meno, come Canada, Svezia, Norvegia, Danimarca. In definitiva, quel che determina il benessere non è il Pil, ma il Pil per abitante. Il Pil è importante a livello geopolitico, nel senso che più grande è, più si pesa nei consessi internazionali e nelle scelte strategiche di fondo: la Cina insegna. Quello che è critico non è né la numerosità della popolazione, né la grandezza del Pil, ma l’equilibrio fra le dimensioni della forza lavoro occupata e quelle della popolazione che consuma senza contribuire al Pil: anziani, giovani “neet”, adulti inattivi o ritirati precocemente».
Tre anni fa lei ha descritto la società italiana come composta da individui appagati e non più desiderosi di costruire, crescere, riprodursi. Siamo ancora una “società signorile di massa”?
«Certo, lo siamo più che mai. Il Covid ha fatto crescere il livello di aspirazione di un po’ tutte le categorie, senza che a questo aumento di bisogni e desideri sia corrisposto un significativo aumento della produttività»
La diminuzione della popolazione si verifica nonostante l’immigrazione. Come mai?
«È banale aritmetica. Avere tanti anziani significa fronteggiare ogni anno un cospicuo flusso demografico negativo, amplificato dall’eccesso di mortalità che ci ha regalato il Covid. Con oltre 700 mila morti l’anno, e meno di 400 mila nati, occorrerebbero ogni anno almeno 350 mila nuovi cittadini per pareggiare i conti. L’apporto dell’immigrazione non è sufficiente per almeno due buoni motivi: primo, molti immigrati irregolari transitano in Italia, ma si dirigono verso altri Paesi; secondo, oltre la metà degli ingressi regolari (mediante il decreto flussi) sono per lavoro stagionale. Quindi l’apporto degli immigrati, pur aumentato rispetto al passato, resta molto modesto. E poi c’è un’altra cosa, forse la più importante: il nostro vero problema non è l’equilibrio demografico, ma l’equilibrio previdenziale. Aumentare le nascite, anche si riuscisse a raddoppiarle, potrà avere i primi effetti positivi sui conti pensionistici non prima del 2040, quando i nati in questi anni si affacceranno sul mercato del lavoro e, finalmente, cominceranno a pagare i primi contributi previdenziali. Un po’ in là nel tempo, mi sembra…».
Viviamo in una società in cui cresce, soprattutto tra i giovani in età riproduttiva, il lavoro precario. Non sarà l’incertezza a bloccare le nascite?
«No, negli ultimi settant’anni l’entità del lavoro precario è sempre stata elevata in Italia, eppure in passato questo non impediva di fare figli. Anche sull’incertezza come freno alle nascite ho molte perplessità, mi sembra una razionalizzazione più che una spiegazione. Purtroppo la questione è difficile da decidere in modo rigoroso, ossia con i dati e i modelli causali. Se però dovessi avanzare un’ipotesi, punterei piuttosto su un altro fattore: la deriva iperindividualistica della società italiana. Per molti giovani i figli sono, potenzialmente, un grave ostacolo a modi di vita altamente centrati sul sé, che sono maturati negli anni e cui non si intende rinunciare».
La questione del welfare: non sarebbe più utile destinare risorse pubbliche al sostegno di chi fa figli invece di continuare a tagliare la spesa invocando la riduzione degli sprechi?
«Non mi sembrano due cose in alternativa. Il sostegno a chi fa figli è una misura sacrosanta, ma per finanziarlo, se non si vogliono tagliare altri pezzi dello stato sociale, la spending review è la via maestra, anche se dolorosa».
Quale soluzione propone per invertire il trend di diminuzione della popolazione (sempre che lo si voglia fare)?
«Nel periodo medio-breve il trend non è invertibile, perché i fattori culturali (propensione a fare figli), anche se incentivati, cambiano molto lentamente, e immettere 700mila immigrati all’anno comporterebbe tensioni sociali insostenibili. Bisognerà, prima o poi, prendere atto che ci sono anche problemi irrisolvibili, o risolvibili, forse, solo nel lungo periodo».
La popolazione è in diminuzione soprattutto al nord, dove pure la ricchezza è maggiore. Come si spiega?
«In realtà, secondo l’Istat, nell’ultimo anno per cui si hanno dati consolidati (il 2022), il calo maggiore è al Sud (-0.6%), seguito dal Centro (-0.3), e infine dal Nord (-0.1%). Il che è abbastanza normale: nel Nord il calo è attenuato dall’ingresso degli stranieri e dall’emigrazione dal Mezzogiorno».
Il calo delle nascite prosegue anche dopo la pandemia, quando invece si ipotizzava che il superamento del pericolo sanitario avrebbe fatto crescere la popolazione. Come si spiega?
«L’ipotesi era un tantino azzardata. La pandemia ci ha resi più esigenti, più vogliosi di tempo libero e di autorealizzazione, non certo più operosi o più desiderosi di mettere su famiglia».