The Story That “Hillbilly Elegy” Doesn’t Tell
18 Agosto 2024Eva Jospin nella foresta incantata
18 Agosto 2024di Paolo Merenghetti
1978La gioventù che descrivo esce da un’esperienza autobiografica. Mirko, Goffredo e gli altri sono amici miei, appartengono al mio mondo, alla mia generazione. Viviamo con uguale disperazione politica. Ma io credo all’ironia come strumento di analisi e penetrazione critica. Cerco di temperare il dolore della rappresentazione con una vena di umorismo. Un equilibrio difficile da raggiungere. Ho dovuto frenare la mia naturale inclinazione. La piega verso il comico sarebbe stata fin troppo facile. Ma temevo una coloritura di qualunquismo.
1979Nemmeno una critica sensata. I miei film o sono stati scambiati per film esclusivamente comici o si è parlato solo di teatro, scuola, autocoscienza, movimento del ’77 e, naturalmente, giovani. Sono stati presi per film naturalistici. Come se mi fossi acquattato a spiare i giovani dietro un albero o in un videotape. Io non ho mai creduto nell’improvvisazione. Nemmeno le riviste specializzate si sono poste il problema di come giro.
1981Tra le tante cose, è stato scambiato per un film sul movimento del ’77, ma non c’entrava niente, era solo un film fatto in quel periodo. A me interessa la realtà, non l’attualità. Altrimenti l’avrei ambientato all’università, con tante comparse, di cui alcune vestite da poliziotti… Insomma non c’entrava niente. Era la collocazione sociale, politica, anagrafica dei protagonisti che restringeva un po’ il cerchio. Ma, d’altra parte. Per usare una di quelle comode formule che mi porto sempre dietro nei dibattiti (ma che sono anche un po’ vere): un film più è particolare e più invece è internazionale.
1983Per quanto riguarda questa benedetta commedia italiana: ora che ho una casa e m’è arrivato il conto del falegname, del tappezziere e dell’idraulico, ho capito perché sono stati fatti tanti film, non li giudico più, non ne parliamo più. (…) Rivedendo Ecce bombo su Rai Tre, non mi sono piaciute le cose che non mi erano piaciute allora e per gli stessi motivi: non perché fossero datate.
1984Dieci anni fa io, con altri quattro, ho fatto parte di uno dei primi gruppi di autocoscienza maschile. Era anche una reazione al femminismo: quindi si parlava, naturalmente, anche di amore, di rapporto con le ragazze, di coppia. Ma nonostante fossimo tutti in crisi con il modo di far politica del tempo che tutti sentivamo come troppo stretto, la nostra analisi sul tema della coppia continuava a essere sempre e molto ideologica: la coppia veniva analizzata come «mondo chiuso» nemica del mondo esterno e dello scambio, come una nicchia in negativo, come cecità e ottusità… Ora, mi sono reso conto che un discorso «oltre la coppia» può essere fatto solo da chi la coppia l’ha vissuta, l’ha attraversata. E invece per noi e per molti altri, questa analisi critica era in verità una scorciatoia: andare oltre, per evitare la coppia, per difenderci da quel lavoro di vita che la coppia impone e che noi avevamo paura di fare.
1984Fino a quando non ho girato Ecce bombo, non sapevo neanche cosa fossero i ciak. Si girava senza grandi preparativi o tempi morti. Facevo un po’ tutto io con l’assistenza di Fabio Traversa. Questi amici mi regalavano il loro tempo libero. Non posso dire che si divertissero, però si lasciavano trascinare. Se mi vedessi come ero allora probabilmente rabbrividirei, perché avevo quella grinta, molto fastidiosa, ottusa, che hanno i neofiti quando iniziano un lavoro che gli piace (o scoprono una fede o una ideologia). Forse era inevitabile, necessaria, in quel modo riuscivo a coinvolgere gli altri. (…) Ecce bombo era costato centottanta milioni e incassò due miliardi.
1985Anche se i miei non mi sembrano film comici, mi fa piacere che la gente vi trovi occasione di divertimento. Non appartengo né a quelli che si vergognano di far ridere, né a quelli che si vantano di far ridere.
1985Vorrei fare sempre lo stesso film, possibilmente sempre più bello e magari, sarebbe il massimo, senza venirmi a noia.
1986Io pensavo di aver fatto un film drammatico, molto parziale. Mi interessava «lavare i panni sporchi in pubblico», essere trasparente, mettersi in discussione e prendersi in giro di fronte agli altri — e senza paura di strumentalizzazioni. Trovavo parziale il mio punto di vista (abbastanza pessimista) e l’ambiente in cui si trovavano i personaggi (piccola e media borghesia, di sinistra, nella città di Roma). Invece il film piacque più del previsto e ci fu da parte di molti una rincorsa all’identificazione con i personaggi e il clima del film. Forse la drammaticità di Ecce Bombo è dovuta a quel momento di grande disperazione e confusione che negli anni successivi portò qualcuno all’isolamento, altri alla scelta del terrorismo, altri ancora alla scelta di un arrivismo in grande stile.
1988Se penso al mio doppio esordio di Io sono un autarchico e Ecce Bombo, oggettivamente, servì da incentivo per giovani registi. Mi sembra, senza volerlo, di aver aperto piccole porte.
2008Ecce Bombo (che è l’urlo di uno straccivendolo che, mi avevano raccontato, girava intorno a una scuola di Roma — il Giulio Cesare, ndr — e che compare in una scena del film): sono stato indeciso tra decine di titoli (…). Uno era Sono stanco delle uova al tegamino, poi scelsi Ecce Bombo che allora suscitava poco consenso, ricordava Ecce Homo, sembrava blasfemo. Senz’altro se il film fosse andato male la colpa sarebbe stata del titolo.
2016Se Ecce Bombo fosse andato male avremmo dato la colpa al titolo. Sono stanco delle uova al tegamino era un altro dei titoli possibili. E poi Delirio d’agosto e Piccolo gruppo. Questa esperienza dell’autocoscienza, io l’ho vissuta veramente. È stata l’unica volta in cui mi sono ritrovato all’avanguardia in vita mia. Era un piccolo gruppo di autocoscienza maschile che avevo fatto nel 1974. Ad ogni proiezione, anche quando c’era un pubblico ridanciano e disponibile, quando c’era la battuta su Alberto Sordi… in sala un gelo… come se avessi bestemmiato in chiesa.
2016Mi ricordo, dopo una proiezione privata in cui c’eravamo io, il montatore e il produttore, feci una camminata per via Fabio Massimo con quest’ultimo che mi disse: «Io a questo film sono affezionato, come lo si è con i figli più problematici e sfortunati». Ero convinto di aver fatto un film doloroso, per pochi. Quando uscì scoprii che avevo fatto un film comico per tutti. Mi dicevano: hai fatto un film troppo italiano, anzi, no, troppo romano; anzi, no, troppo di Roma nord; anzi, no, troppo del quartiere Prati; anzi, no, troppo di Piazza Mazzini…
2023[A Cannes per Ecce Bombo, ndr] Mi ricordo che indossavo una giacca gialla a quadretti. Non c’erano tappeti rossi né l’obbligo del vestito da sera. Le proiezioni si facevano sul lungomare, dalla parte dei grandi alberghi. Me ne andavo in giro con i miei attori, Paolo Zaccagnini, Fabio Traversa e un altro amico, nella totale inconsapevolezza. Non avevo la minima idea di dove stessi o di quanto fosse importante partecipare a Cannes.
2024Dopo le proiezioni di Io sono un autarchico al cineclub Filmstudio di Roma, si fecero vivi molti produttori per propormi dei film. Dopo vari incontri, rimasi indeciso per un po’ di tempo tra Franco Cristaldi e Mario Gallo. Alla fine preferii Gallo, mi sembrava che lì ci fosse un’atmosfera più familiare e adatta a me. La produzione di Gallo si chiamava Filmalpha, ma aveva appena fondato anche un’altra società, Alphabeta, insieme a tre attori: Flavio Bucci, Michele Placido e Stefano Satta Flores. Questi attori, stanchi di essere scelti dai registi e da sceneggiature ideate da altri, volevano ribaltare il meccanismo: volevano essere loro a scegliersi i personaggi e le storie da interpretare.
Bellissima idea, però alla fine l’unico film che produssero fu Ecce Bombo, in cui non recitavano perché non c’era un ruolo per loro… Peccato, perché era una bella idea produttiva.
Per quel film non feci nessun provino. Non li avevo mai fatti, era tutto nuovo per me, non avevo idea di quanto potessero essere utili. E poi mi imbarazzavo all’idea di fare un esame agli attori (dal film successivo ho cominciato a fare provini e non ho più smesso). Gli agenti cinematografici giravano con degli album con grandi foto in bianco e nero 18×24, le facce che mi sembravano più interessanti le incontravo. Un giorno andai a trovare il mio amico regista Peter Del Monte e gli feci vedere un po’ di queste foto. Dentro di me avevo già scelto l’attrice che avrebbe interpretato «giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose…», ma lui, appena vide la foto di Cristina Manni disse: «Lei è una faccia giusta per un tuo film!».
Io allora cambiai idea e presi lei. E fu una fortuna per me e per quel personaggio, perché lei si rivelò bravissima e molto giusta per quel ruolo.
Peter Del Monte mi suggerì anche con decisione di girare con il suono in presa diretta, nonostante in Italia ci fosse da decenni l’abitudine di doppiare sempre i film (lui stesso aveva esordito un paio d’anni prima con un film doppiato, Irene, Irene, bel film personale e fuori dalle mode cinematografiche di quel periodo). Mi piaceva molto l’uso — allora avrei detto brechtiano e non naturalistico — della macchina da presa fissa che utilizzavano i fratelli Taviani. E così sul set, rigidamente ed esageratamente, vietavo all’operatore zoom, panoramiche o anche piccoli aggiustamenti di macchina. Mi pare che in tutto il film ci siano solo due movimenti, due carrelli indietro. Mentre giravamo, Lina Sastri — che interpretava una ragazza schizofrenica — mi chiedeva spiegazioni sul suo personaggio, sul perché stava male, cosa le era successo prima di ammalarsi, prima della storia che il film racconta… Io le dicevo di non preoccuparsi assolutamente di quegli aspetti e di limitarsi a recitare i dialoghi, e i silenzi, nel modo che a me sembrava più giusto. Oggi, dopo tanto tempo, penso di essere un po’ più vicino alle fragilità e alla sensibilità degli attori.
Nel film c’è la parodia di un’esperienza che avevo fatto nel 1974: un piccolo gruppo di autocoscienza maschile (all’epoca non li faceva nessuno). Eravamo cinque e avevamo in comune tre cose. Uno: avevamo fatto politica nei gruppi della sinistra extraparlamentare. Due: avevamo smesso di fare politica, delusi da quell’esperienza. Tre: avevamo relazioni sentimentali con femministe.
Quelle nostre riunioni durarono pochi mesi.
Mentre scrivevo e giravo il film, ero consapevole di raccontare una piccolissima porzione di giovani, sapevo che i personaggi e l’ambiente che mettevo in scena erano una parte di realtà molto piccola e circoscritta. Il film inaspettatamente ebbe successo e ci fu una corsa all’immedesimazione con i personaggi e il clima di Ecce Bombo. Piacque anche a spettatori molto lontani dai personaggi: spettatori diversi per estrazione sociale, età, anche idee politiche. E assolutamente non mi preoccupava la possibilità che un film ironico e critico sulla sinistra potesse essere strumentalizzato dalla destra: fin dai miei primi cortometraggi in Super 8 ero per «lavare i panni sporchi» in pubblico, non in famiglia. Sono stato sempre contrario alla politica stalinista della doppia verità, e cioè che tra di noi, in privato, ci diciamo le cose che non vanno e poi in pubblico invece dobbiamo apparire monolitici.
Fin dai miei esordi è stato detto che io avrei raccontato con i miei film un’intera generazione. In quegli anni ero insofferente a questa lettura, che ritenevo troppo sociologica e poco attenta al come i miei film venivano realizzati. In poche parole, mi sentivo trascurato come regista e invece considerato una specie di portabandiera dei giovani. Bene, ho cambiato idea. Se davvero con i miei film sono riuscito a raccontare una generazione, i suoi desideri, i suoi inciampi e le sue paure, beh, considero questo fatto una fortuna, un privilegio e un onore.
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