Il 13 marzo 2013 Jorge Mario Bergoglio veniva eletto papa. In questo decennio nella Chiesa cattolica ci sono stati mutamenti significativi, si sono avviati processi ma anche frenate che hanno ridimensionato l’immagine del pontefice riformatore. Ne abbiamo parlato con Daniele Menozzi, professore emerito di Storia contemporanea alla Normale di Pisa, autore del volume Il papato di Francesco in prospettiva storica (Morcelliana), in libreria da giovedì prossimo.
Professor Menozzi, all’inizio del pontificato il profilo riformatore di Francesco sembrava evidente, poi pare essersi ridimensionato. Perché?
Il governo di Francesco è stato impostato su una linea riformatrice, non certo rivoluzionaria. Si trattava di far uscire la Chiesa dalla situazione difficilissima cui l’aveva condotta l’incapacità del suo immediato predecessore di affrontare le sfide poste dalla post-modernità. Questa linea si è scontrata con varie difficoltà, sia resistenze conservatrici sia fughe in avanti, che hanno indotto il papa a calibrare i provvedimenti sull’obiettivo di preservare l’unità della Chiesa, evitando un conflitto che potrebbe generare uno scisma. Questo atteggiamento di prudenza ultimamente si è tradotto in un appannamento della spinta innovativa, favorendo per esempio un ritorno alla centralizzazione romana.
Bergoglio ha aperto una porta, avviando alcuni processi di riforma, poi però si è fermato sulla soglia…
Fin dall’inizio Francesco ha chiarito che era sua intenzione avviare processi. Si trattava di far entrare in rapporto con la storia un popolo cattolico che, durante i pontificati di Wojtyla e Ratzinger, era stato guidato a cercare vie di aggiornamento del tutto inadeguate a rimetterlo in contatto con gli uomini contemporanei, che la post-modernità portava a rivendicare spazi sempre più ampi di autonomia. Lo sviluppo di questi processi doveva coinvolgere l’intera compagine ecclesiale. Gli interventi del papa per regolarli, e in alcuni casi rallentarli, sono evidentemente dettati da un giudizio politico: potrebbero incrinare quella compattezza della Chiesa, la cui preservazione ritiene compito primario del ministero petrino.
C’è stato un aggiornamento o la Chiesa romana non si è spostata di un millimetro?
In diversi ambiti il cambiamento è reale. Basta pensare all’abbandono del progetto di neo-cristianità portato avanti da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI: la conformazione degli ordinamenti pubblici alla legge naturale non è più il tratto distintivo della presenza dei credenti nel mondo odierno. In altri ambiti i processi di trasformazione sono stati avviati, come sull’atteggiamento verso le persone omosessuali: Roma, ad esempio, non ha sconfessato la forma di accoglienza ecclesiale delle loro unioni elaborata dalla Chiesa belga sei mesi fa.
Proprio a questo proposito: è possibile aggiornare la pastorale senza toccare la dottrina o si tratta di una contraddizione insuperabile?
Francesco ha indicato la via per evitare la contraddizione. La dottrina, al pari della legge naturale, resta; ma non è il punto di riferimento prioritario, perché per il credente il riferimento fondamentale è il Vangelo, e Bergoglio ne ha individuato il nucleo nella misericordia. In questa prospettiva si può trovare la soluzione al problema. Tocca alle comunità ecclesiali mostrare la capacità di raccordare Vangelo e segni dei tempi.
Dopo gli arretramenti di Wojtyla e Ratzinger, è riuscito a portare i cattolici ad affrontare le sfide poste della post-modernità come la omosessualitàSul versante sociale il magistero di Francesco procede invece in maniera lineare e avanzata. Quali sono i punti più significativi?
Oltre all’enciclica Laudato si’ sulla questione ambientale, in cui il papa ha legato ecologia e giustizia sociale, sottolineo due aspetti fra gli altri. Il primo è la connessione che mi sembra esserci tra il processo sinodale e la rivitalizzazione di una democrazia in evidente crisi di partecipazione: cioè se il fedele cattolico partecipa maggiormente alla vita della Chiesa, sarà incentivato a farlo anche nella politica. Il secondo è il mutamento di un tratto importante della dottrina sociale della Chiesa: senza abbandonare questo obsoleto sintagma, Francesco lo ha caratterizzato come incoraggiamento dell’autorità ecclesiastica ai movimenti che lottano per la giustizia, senza metterne mai in questione l’autonomia organizzativa e politica.
Bergoglio ha condannato la guerra in Ucraina, ha riconosciuto le responsabilità dell’aggressore russo, senza però indossare mai l’elmetto della Nato. Ora la situazione sembra senza via di uscita, l’unica strada è quella militare. È una sconfitta?
La guerra è una sconfitta per tutti, tranne che per le industrie militari e i trafficanti di armi. Ma se la diplomazia vaticana, pur senza risultati concreti, ha mostrato una certa forza propositiva, rilanciando per esempio il modello Helsinki, chi esce male dalla guerra è il mondo cattolico. Anche qui Francesco ha avviato un processo: passare dalla dottrina guerra giusta alla non violenza attiva. Durante il conflitto però gli intellettuali e il mondo cattolico hanno rivelato tutto il loro drammatico ritardo nel dare pratica efficacia a questa indicazione, restando ancorati all’idea di legittima difesa e ribadendo che essa costituisce un’attuazione della guerra giusta.