PARIGI – «La storia di un uomo come mio padre non avrebbe mai dovuto essere letta o portata sul palco. Non c’era spazio per la sua esistenza da operaio, paralizzato per un incidente sul lavoro a trentacinque anni e destinato a morire giovane come tanti altri, come mio fratello deceduto qualche mese fa, una delle tante vite disperse che di solito non racconta mai nessuno». Edouard Louis, una delle voci più potenti della letteratura francese, arriva in Italia portando in scena lo spettacolo teatrale tratto dal suo romanzo Chi ha ucciso mio padre.

Lo scrittore è autore e interprete della pièce in scena domani nell’ambito della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi. Louis, 29 anni, si definisce «transfuga di classe», sfuggito grazie agli studi al determinismo di un misero paesino del nord della Francia, senza però mai dimenticare le sue origini, come Annie Ernaux che pure dedicò a suo padre il libro autobiografico Il Posto. Il giovane autore pubblica anche un dialogo con il regista Ken Loach, Dialogo sull’arte e la politica (Nave di Teseo).

Con Loach avete una differenza d’età di quasi mezzo secolo, cosa vi accomuna?
«Chi ha ucciso mio padre è stato in parte scritto sotto l’influenza del suo splendido film Io, Daniel Blake, nel quale un uomo è assillato dall’amministrazione inglese perché rientri al lavoro in spregio alla sua salute disastrosa. È quello che successe nella mia famiglia. Più in generale, con Ken abbiamo l’urgenza di rappresentare le classi popolari con onestà. E non tanto perché le classi popolari sono invisibili come si dice, anzi: c’è probabilmente una sovraproduzione di discorsi politici e opere di ogni tipo. Ma è una rappresentazione falsa e intrisa di disprezzo che, in qualche modo, tende a nascondere la realtà di queste persone. La nostra non è una battaglia della parola contro il silenzio. È una lotta contro una caricatura che oscilla tra selvaggi e buoni selvaggi, persone pericolose o portatrici di una presunta autenticità».

Questa “onestà” le è stata anche rimproverata.
«Uscire da questa doppia visione ereditata dalla cultura colonialista, come ho cercato di fare, provoca scandalo. Sono stato accusato di dare una cattiva immagine dei ceti popolari perché raccontavo di persone che soffrono, reprimendo sogni e desideri, ma di gente razzista e omofoba. Non c’è un giorno della mia infanzia che non abbia sentito la parola “frocio”. La letteratura non deve assegnare buoni voti come a scuola, ma dare corpo alla realtà. Se non si parla di cultura patriarcale, razzismo e omofobia allora non si può raccontare un paesino come il mio dove più della metà degli elettori vota per l’estrema destra».

La letteratura, come il cinema, non lo fanno già?
«Quando sono arrivato a Parigi e sentivo parlare di ceti popolari non avevo mai la sensazione di riconoscere mia madre. Una donna condannata a stare a casa con mio padre che le diceva di stare zitta, di pensare solo a cucinare, pulire e occuparsi dei figli. Non vedere rappresentata lei come tante altre, che poi sono la maggioranza, è stata un’ulteriore violenza. Ed è quello contro cui è insorto Ken in un capolavoro come In questo mondo libero».

 

Non c’è il rischio che le persone che vuole raccontare siano escluse anche dal suo gesto letterario?
«La prima volta che ho pensato che volevo diventare scrittore è stato quando da piccolo mia madre, passando davanti a una bancarella, ha visto un libro di Emile Zola e ha detto: “Lui è dalla nostra parte, si batte per noi”. Di certo non aveva mai letto Zola ma è la dimostrazione che la letteratura può essere un fiume che tracima. Penso comunque che non ci si può accontentare di scrivere libri. Per questo pubblico articoli nei giornali, vado nei teatri, nelle manifestazioni. Partecipo spesso a cortei, ho manifestato contro razzismo e riforme neoliberiste, sono sceso in piazza con i gilet gialli. Ken fa la stessa cosa. Mi ha raccontato che organizza proiezioni nei pub. Sentiamo una forma di responsabilità etica del nostro mestiere: non si può scrivere di ceti popolari restando chiusi in casa». 

Gli intellettuali impegnati oggi si vedono più spesso a destra?
«È vero che c’è stata una fase di disimpegno negli ultimi trenta, quarant’anni. Una sorta di contro-reazione dopo il grande momento di Marguerite Duras, Jean Genet, Pier Paolo Pasolini. Quando ho cominciato, all’inizio degli anni 2010, avevo l’impressione di avanzare nel deserto. Scrivevo pensando anche ai miei nemici, a tutti quelli che non vogliono vedere la povertà o la occultano con false rappresentazioni che impediscono uno spazio di conoscenza e quindi di progresso. Lo ha detto bene Didier Eribon in Retour à Reims: quando la gauche ha smesso di parlare alle classi popolari c’è stato un esodo di elettori verso l’estrema destra. A sinistra accadono delle cose ma non siamo in grado di vederle. Sempre Eribon spiega: “Non c’è fascizzazione senza fascinazione”».

Come si inverte la tendenza?
«Vedo nascere un movimento nell’arte e nella politica. La battaglia è anche nella tempistica. Chi parla per primo di alcuni temi impone le sue domande. Combattere l’estrema destra significa costringerla invece a dare risposte, metterla sulla difensiva. È quello che è successo quando il governo di sinistra in Francia ha approvato il matrimonio per gli omossessuali. Dobbiamo riprendere una voce e non essere prigionieri di domande che spesso sono insulti, dall’immigrazione alle disuguaglianze. Quello che sta succedendo in Francia con la coalizione di sinistra è un motivo di speranza. Per la prima volta ho l’impressione che usciamo dal ciclo infernale dell’alternativa tra una causa e la sua conseguenza: tra la destra neoliberistra di Macron e l’estrema destra di Le Pen».

Prima citava Pasolini, è un motivo di ispirazione?
«È un modello di come dovrebbe essere un artista, con un’esigenza di parola e presenza. Al tempo stesso combatto la sua mistificazione sui ceti popolari, l’idea che i poveri sono gente autentica contro la borghesia corrotta. Quasi ogni linea che ho scritto è contro Pasolini. Contestare un artista è un modo di rendergli omaggio. Quando parlo con gli studenti dico sempre: non dovete amare troppo la letteratura se volete fare buona letterattura».

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