Peter Beinart
In un mondo dove cambiare idea è sempre più difficile, soprattutto su una questione come le responsabilità, il passato e il futuro di Israele e Palestina, Peter Beinart è una figura rara. Diventato famoso come direttore della rivista politica The New Republic a soli 28 anni, sostenitore del sionismo liberale, favorevole alla guerra in Iraq, Beinart ha trascorso gran parte degli ultimi dieci anni a riconsiderare le sue posizioni, fino ad arrivare – nell’estate del 2020 – a un taglio netto. «La dolorosa verità è che il progetto al quale i sionisti liberali come me si sono dedicati per decenni – uno Stato per i palestinesi separato da uno Stato per gli ebrei – è fallito», ha scritto in un lungo saggio per Jewish Currents fino ad arrivare a pubblicare, nel maggio 2011, mentre la violenza in Israele e a Gaza aumentava, un secondo saggio a sostegno del diritto dei palestinesi. «Se i palestinesi non hanno il diritto di tornare in patria», ha scritto, «nemmeno noi lo abbiamo».
Figlio di ebrei emigrati dal Sud Africa, osservante e appartenente a una comunità ortodossa, oggi a 52 anni è tra i personaggi più critici nei confronti del governo Nethanyau e della guerra contro Hamas. «Non penso che gli Stati Uniti possiedano alcun diritto intrinseco a governare il mondo. Se l’America vuole l’autorità morale, deve guadagnarsela. E credo che il modo migliore per garantire la sicurezza del popolo ebraico, il mio popolo, sia attraverso l’uguaglianza e la giustizia per i palestinesi».
Il New Yorker l’ha definita un “sionista liberale che si è buttato a sinistra”. Come è avvenuto questo spostamento?
«Non è stato improvviso, erano anni che sentivo che l’idea della spartizione non era più possibile, e che non risolveva alcune questioni fondamentali. Mi sono sentito in un vicolo cieco. Ho iniziato a leggere molti scrittori e storici palestinesi – Ali Abunimah, Mahmoud Darwish, Edward Said – che avevano cercato di immaginare un ambiente politico integrato in cui ci fosse uguaglianza. Ho cominciato a credere che quell’idea, che avevo scartato come impossibile, non fosse più così impossibile. Potrebbe non accadere mai, ma oggi credo che sia giusto lottare per riuscire a realizzarla».
C’è una divisione generazionale negli ebrei americani per quanto riguarda il rapporto con Israele? La Generazione Z e i millennial sembrano più critici, meno ideologici?
«Assolutamente. I sondaggi dicono chiaramente che c’è. Quello che sto cercando di fare è proprio parlare a questi ebrei americani più giovani e cercare di aiutarli a pensare a come dare una direzione al loro disagio morale, al loro desiderio di trovare un modo di collegare l’essere ebreo con un progetto etico che non ritrovano al momento in Israele. Vedremo cosa accadrà, ma penso che sia un ottimo segno che gli ebrei americani più giovani siano più disposti a vedere i palestinesi come pienamente umani e a preoccuparsi della loro oppressione».
I palestinesi stanno riscuotendo il sostegno di molte comunità, soprattutto di quelle che hanno vissuto l’oppressione. Lei stesso cita spesso l’apartheid sudafricano o i movimenti per i diritti civili nell’America degli Anni 60. Nessuno di loro però aveva un braccio armato che ha commesso le atrocità che ha commesso Hamas.
«Solo perché rappresenti un gruppo di persone oppresse non significa che le tue azioni siano morali o che ogni gruppo che rappresenta un popolo oppresso sia ugualmente morale. Però non è giusto giudicare l’intero movimento nazionale palestinese dall’azione di Hamas perché il movimento nazionale palestinese ha usato tutta una serie di modi per rispondere a Israele e al sionismo. In ogni movimento nazionale ci sono attori diversi. Tra i palestinesi in questo momento ha preso il sopravvento la parte più immorale, e dobbiamo lavorare per cambiare questa situazione».
È per questo che parla della necessità di “una ricostruzione morale che deve iniziare subito” e di una nuova forma di resistenza etica?
«Gli sforzi palestinesi verso la nonviolenza sono falliti, e penso che gli Stati Uniti abbiamo gran parte della responsabilità di questo fallimento. Ora è il momento della violenza, quella inflitta ai palestinesi e quella che in ritorno infliggeranno loro. Tutto questo non aiuterà nessuno, e nemmeno la costruzione di uno stato di Israele risolverà in definitiva alcun problema. La mia idea è che in futuro – e potrebbero volerci anni e chissà quanti morti – torneremo a un punto in cui ci sarà l’opportunità di costruire un movimento per la resistenza etica».
Il presidente Biden nel ribadire il sostegno americano a Israele e al suo diritto a difendersi ha detto che Hamas va eliminata. Lei già nel 2021 scriveva: «Se Israele elimina Hamas, non cambia radicalmente nulla».
«Hamas è stata creata alla fine degli Anni 80, mentre i palestinesi hanno combattuto contro Israele usando a volte la violenza, incluso la violenza contro i civili, da molto prima. Il punto è che se i palestinesi non avranno i diritti fondamentali, resisteranno a Israele in vari modi. Alcuni potrebbero essere non violenti, altri violenti contro i civili, e se non c’è Hamas qualche nuovo gruppo – come quelli che già si vedono in Cisgiordania – emergerà, non importa se islamista o nazionalista o di sinistra o senza ideologia alcuna. Hamas è un’organizzazione odiosa e ripugnante, ma qui c’è un problema molto più profondo che continuerà anche quando e se Hamas dovesse essere eliminata».
Lei parla della necessità di «nuove forme di comunità politica costruite su una visione democratica forte abbastanza da trascendere le divisioni tribali» proprio in un momento in cui l’estremismo politico prevale un po’ ovunque.
«Le forze dell’etnonazionalismo sono in crescita e sinceramente penso che vedremo anche di peggio in India, in Israele, in altri luoghi. Quindi se la domanda è: sei ottimista? La risposta è no, nel breve periodo no. Ma se la domanda è quale sia la cosa giusta da fare, la risposta non può che essere questa: proporre una visione alternativa, fare la mia parte».