Ernesto Ferrero è morto ieri, aveva 85 anni, sessanta dei quali trascorsi tra i libri, in abiti diversi come è raro che accada: redattore e direttore editoriale, critico letterario, romanziere, traduttore e naturalmente direttore del Salone internazionale del libro di Torino, cioè organizzatore di uno spazio che salda lettura e commercio. Una chiave di accesso per raccontare questa figura polimorfa si può trovare facendo un passo indietro rispetto ai modi con cui governò il suo amore per il libri, andando più vicino all’origine del mestiere e della vocazione: la passione per la lettura. Diremmo quindi che Ferrero fu un lettore.

DEL TEMPERAMENTO dell’uomo, guardandone in tralice scrittura e titoli, va subito riconosciuto un senso di gratitudine rispetto alla storia culturale che ha attraversato. Il suo ultimo libro, dedicato a Calvino, Italo (Einaudi), nell’anno del centenario pare un sigillo alla loro frequentazione: è una biografia come una profilazione delle scelte dello scrittore, per il quale nel 1995 aveva già curato, con Luca Baranelli, il «meridiano» Album Calvino.
La vocazione testimoniale, non priva di una sobria verve epica, era già emersa in altre narrazioni. Del 2022 è Album di famiglia (Einaudi), che racconta gli intrecci tra le personalità attive nella cultura letteraria italiana da lui conosciuta, mentre del 2016 era un racconto incentrato su Luigi Einaudi e la casa editrice: I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli). Usando con discrezione i fondamenti autobiografici di queste storie, Ferrero offrì un teatro vivace e lieve, mai celebrativo di una fetta importante del mondo editoriale italiano, i cui ingranaggi inventivi, e artistici conosceva di prima mano, così come le sue eroine e i suoi eroi.

IL GUSTO DI NARRARE autobiograficamente, prendendo angolature particolari, lo troviamo anche in un libro ironico e nostalgico come Amarcord bianconero (Einaudi, 2018), nel quale il mondo del calcio, vissuto da tifoso, diventa il filtro per leggere il legame misterioso tra la passione e il caso.
Il ruolo da protagonista di una lunga stagione libraria viene ricordato anche dai saluti che in queste ore gli dedicano sia il Salone del libro di Torino sia l’Associazione degli editori indipendenti. Meno scontata è la coincidenza di alcune immagini che lo identificano nella memoria: l’eleganza, la gentilezza e l’ironia, doti che si possono riscontrare anche nella sua scrittura.

È PIÙ PROPRIAMENTE dello scrittore che ora vogliamo dire. Il piacere di assumere punti di vista inusuali appare già nel suo romanzo d’esordio, che riprende la cronaca del sedicente White Elk, che negli anni ’20 sventolando la falsa genealogia di capo indiano si professava convinto fascista e seguace di Mussolini. Incantato il pubblico, la sua millanteria fu scoperta e punita con il carcere. Ferrero gli dedicò un primo racconto nel 1980, Cervo Bianco (Mondadori), che poi aggiornò in un altro spassoso romanzo del 2001, L’anno dell’Indiano (Einaudi). «Continua a sembrarmi uno specchio fedele della creduloneria degli italiani (degli uomini) di ieri e di oggi L’uomo in maschera che ha smascherato gli italiani», scriveva nel giugno di quest’anno, dato che dietro la farsa si celava una persona che la morale borghese cattolica reazionaria del pubblico italiano ripudiava: alcolista, morfinomane, bisessuale, debitore infedele, squassava la credibilità di tutto.

L’OSSESSIONE FELICE di riscrivere storie e vite in forma romanzesca sarebbe apparsa in tutta la sua forza con l’assegnazione del Premio Strega per il romanzo N. (Einaudi 2000), una narrazione che coglie con divertito rispetto la fragilità di Napoleone nell’anno 1814 in cui si ritrova rimpicciolito nella reggenza forzata dell’Elba. Se Cervo Bianco aveva un po’ il sapore di una ricostruzione narrativa di tipo sciasciano, che fu maestro nel ricostruire le voci di storia e cronaca, questa volta il modello pare calviniano, del Barone rampante in particolare, in cui Biagio è il narratore affettuoso delle arboree vicende di Cosimo Piovasco di Rondò, così come il bibliotecario Martino è testimone e narratore discreto del destituito imperatore. Mutatis mutandis, è bello riconoscere che la cifra narrativa di Ernesto Ferrero, almeno in questi due casi, si iscrive in una tradizione letteraria che ha radici profonde e riconosciute in Alessandro Manzoni e nella sua più nota creazione. Storia e ironia, capacità di sorridere e di prendere le vite degli altri come parte della storia comune. Certo se c’era, era un progetto ambizioso quello di Ferrero.

ANCHE GLI ALTRI DUE romanzi pseudo storici del 2019 e del 2020 ne paiono sistematica attuazione. Francesco e il sultano scruta nella profondità dei motivi e dei riti che costruiscono la santità, davanti a una creatura sensibile all’ascolto e mai impositiva, anche conscio della sconfitta del tentativo di riunire le spiritualità cristiana e musulmana. Barbablù è invece la narrazione della vita di Gilles de Rais, passato alla storia come crudele e spietato ispiratore di favole nere nonché condottiero al fianco di Giovanna d’Arco e protagonista di un processo inquisitorio molto discusso.
Ecco dunque, che il progetto pare inverso rispetto ai procedimenti manzoniani: cioè non riscrivere la grande storia tramite le piccole vite ordinarie, ma usare le vite straordinarie per restituire loro la giusta, modesta dimensione.

SCHEDA

È appena arrivato nelle librerie Italo di Ernesto Ferrero, edito da Einaudi (pp. 232, euro 19). In occasione del centenario dello scrittore, l’autore ne traccia un ritratto da «dietro le quinte», che presenta alcuni lati caratteriali meno conosciuti, sperimentati nei vent’anni di vicinanza nel lavoro comune presso la casa editrice Einaudi. Con uno sguardo empatico, Ferrero racconta del rapporto con i genitori, la passione per i fumetti e il disegno, il periodo partigiano, il legame con la Liguria, la passione per le fiabe, gli amori, il lavoro quotidiano nelle redazioni dei giornali, ma anche gli incontri particolari, come quello con Hemingway a Stresa. La vita e l’opera di Calvino finisce così per creare un affresco di gran parte del Novecento.