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1928-2023 Scomparso ieri a New York un maestro del Novecento. Visse a Milano da bambino, fu una colonna della Magnum
Artista del bianco e nero, fotografò i grandi e la gente comune con dolcezza e ironia
di Stefano Bucci
«Elliott Erwitt è un uomo di poche, pochissime parole, ma che fa foto straordinarie»: così il suo amico-collega Gianni Berengo Gardin lo aveva definito in un intervento per «la Lettura» del «Corriere della Sera», in occasione della recente presentazione di un volume di scatti inediti (o ritrovati) pubblicati da Contrasto. Fotografo tra i più grandi del dopoguerra, Elio Romano Ervitz — questo il suo vero nome — è morto ieri a New York. Aveva 95 anni. Fu l’artista del bianco e nero le cui fotografie — per riprendere ancora le parole di Berengo Gardin — raccontano molto di lui, della sua sensibilità e del suo stile; sono foto prima di tutto buone, nel senso che in ogni scatto c’è il racconto partecipe di un frammento di realtà, in cui si ritrovano istinto, esperienza e curiosità verso l’uomo».
Erwitt ha attraversato la storia del mondo, lanciando il suo sguardo sui potenti della terra accanto a scene anonime e privatissime. Con un’incredibile capacità di raccontare allo stesso modo i grandi eventi che hanno fatto la storia e i piccoli accidenti della quotidianità. E con uno sguardo che riusciva sempre a sottolineare con delicatezza il carattere comico, insolito o ridicolo di alcuni aspetti dell’esistenza, con una predilezione per gli scatti rubati, catturati per strada, spesso all’insaputa dei soggetti ripresi, come è evidente nella serie Museum Watchers o negli scatti dedicati ai cani.
Nato a Parigi il 26 luglio 1928 da genitori ebrei di origini russe, Erwitt aveva trascorso la sua infanzia a Milano, fino a quando, nel 1939, si trasferisce negli Stati Uniti con la famiglia per fuggire dalle leggi razziali. L’adolescenza l’avrebbe passata a Hollywood, dove inizia presto a lavorare nella camera oscura di uno studio fotografico prima di iscriversi a un corso di fotografia presso il Los Angeles City College. Nel 1948 si sposta a New York dove studia cinema alla New School of Social Research. Nel 1949 decide di tornare in Italia e in Francia dove, questa volta, arriverà da fotografo, accompagnato dalla sua fedele Rolleiflex. Nel 1951 presta il servizio militare per l’esercito statunitense in Germania e Francia, dove avrà modo di scattare ancora fotografie.
La svolta per la sua carriera di fotografo avviene però a New York, quando conosce Robert Capa, Edward Steichen e Roy Stryker. Proprio quest’ultimo lo avrebbe assunto alla Standard Oil Company per un libro fotografico e un reportage sulla città di Pittsburgh. Nel 1953 Erwitt entra a far parte dell’agenzia Magnum e contemporaneamente inizia a collaborare come freelance con riviste del calibro di «Life». Alla fine degli anni Sessanta è presidente della Magnum per tre anni.
Figlio di ebrei russi, era nato a Parigi e divenne americano ma frequentò l’Europa per tutta la vita Negli anni Settanta si dedicò ai documentari. Diceva: «Far ridere è uno dei più grandi risultati possibili»
Dopo questo periodo inizia la carriera di fotografo indipendente, lavorando per «Collier’s», «Look», «Life», «Holiday» e per aziende come le compagnie aeree Air France e Klm. Dagli anni Settanta Erwitt si sarebbe concentrato sul cinema, realizzando film e documentari, trasformandosi di volta in volta in operatore addetto alla camera per G imme Shelter (1970), in fotografo di scena per Bob Dylan: No Direction Home (2005) e in fotografo aggiunto per Get Out Yer Ya Ya (2009).
Elliot Erwitt è stato un fotografo universalmente riconosciuto per la delicata ironia del suo sguardo, che ha sempre preferito rivolgere alle assurdità presenti nella nostra società piuttosto che alle sue patologie. Pur prendendo estremamente sul serio la fotografia, ha sempre sostenuto l’estrema importanza dell’umorismo: «Fare ridere le persone è uno dei più grandi risultati che si possano raggiungere. È molto difficile, per questo mi piace». L’ironia di Erwitt appariva sempre presente, in ogni scatto, in ogni situazione (nella serie I cons come nella serie Family a cui il Mudec di Milano ha dedicato nel 2020 una bella mostra). Uno sguardo rivolto al mondo sempre bonario, accompagnato da una buona dose d’accondiscendenza.
I cani sono stati uno dei suoi soggetti preferiti e non perché ne fosse particolarmente affascinato, ma perché con il loro atteggiamento naturale e irriverente, fungono da perfetto contraltare alla pomposità e alla ricercata compostezza dei loro padroni. La sua spiccata attenzione nei confronti degli aspetti apparentemente più frivoli della società, lo avrebbe resero un protagonista sui generis della straordinaria fucina della Magnum. Eppure anche quando si sarebbe cimentato nel più classico fotogiornalismo, Erwitt avrebbe saputo regalare ai suoi «spettatori» immagini in grado di fissare nella memoria di intere generazioni passaggi storici di portata mondiale: dalla foto di Jacqueline Kennedy durante il funerale del marito, a quella di Richard Nixon che punta il dito sul petto di Nikita Kruscev, dai ritratti di Che Guevara a quelli di Marilyn Monroe.