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di Massimo Gramellini
Aveva tutto dalla vita — giovinezza, ricchezza, fama — e allora perché si è buttato via così? Questo si chiedono i lettori a proposito di Nicolò Fagioli, il campioncino smarritosi nei gorghi delle scommesse sportive. Eviterò di rispondere moralisticamente che giovinezza, ricchezza e fama non sono tutto (ops, l’ho appena fatto) per concentrarmi sulla deposizione rilasciata da Fagioli al procuratore federale: uno squarcio piuttosto illuminante sulla condizione umana. Il demone del gioco gli si presenta due anni fa, durante la noia di un ritiro prepartita. Sembra divertimento, si trasforma in ossessione. Possedere tanti soldi non rappresenta un freno, anzi, è l’acceleratore. Colpiscono i suoi inutili sbalzi di lucidità: Fagioli vede sin troppo bene come si è ridotto, solo che non riesce proprio a venirne fuori. Comincia ad accatastare debiti con le organizzazioni e bugie con i compagni di squadra, ai quali chiede prestiti per tenere a bada le minacce degli strozzini, nelle cui fauci getta manciate di Rolex. Da tempo ha smesso di scommettere per divertimento e ormai non lo fa più nemmeno per ossessione. Adesso gioca solo per ripagare i debiti fatti giocando, in una spirale che si attorciglia intorno alla sua mente, fino al giorno in cui regala un gol agli avversari, viene sostituito e si mette a piangere in panchina non per l’errore, ma per il suo destino.
Qualcuno penserà che voglia giustificare i Fagioli, invece cerco soltanto di capire come funzioniamo noi fagiolini.