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Nella visione che si va imponendo nelle capitali del potere, l’Europa non appare più come un attore politico capace di orientare gli equilibri internazionali, ma come uno spazio da utilizzare, un grande mercato da spartire tra chi oggi detta le regole del gioco. È una riduzione brutale, ma perfettamente coerente con una geopolitica in cui contano la demografia, la forza militare, la capacità tecnologica e la proiezione globale. In questo schema il continente diventa una vasta piattaforma commerciale: un luogo dove vendere, investire, influenzare, senza dover misurarsi con un soggetto dotato di intenzioni e strumenti propri.
Gli Stati Uniti, la Russia e la Cina guardano all’Europa come a un territorio utile ma non decisivo: un aggregato ricco, vulnerabile e politicamente frammentato. Per Washington un’Europa autonoma sarebbe un ingombro strategico, mentre un’Europa ridotta a cliente di armamenti, garante della sicurezza ai propri confini e mercato aperto per i prodotti americani rappresenta un asset comodo e prevedibile. Mosca preferisce un’Unione debole, incapace di muoversi come blocco, e alimenta ogni crepa politica che possa favorire questo scenario. Pechino, infine, considera l’Europa la porta d’ingresso ideale per consolidare la propria influenza economica, un vasto spazio di consumo da integrare nelle proprie catene del valore.
Il paradosso è che l’Europa, più spesso di quanto voglia ammettere, ha offerto di sé l’immagine di un continente aperto ma indifeso, generoso nel sostenere le regole multilaterali ma privo della forza per imporle. Dipende energeticamente da attori esterni, importa tecnologia critica, non dispone di una difesa comune né di una politica industriale unitaria, e oscilla tra rivalità interne e calcoli nazionali. È questa fragilità sistemica che trasforma l’Unione in un campo da gioco piuttosto che in un giocatore.
La conseguenza è una progressiva marginalizzazione del suo ruolo politico. Le potenze globali non temono l’Europa come attore strategico; la desiderano come mercato, perché un mercato non contraddice, non propone alternative, non richiede negoziazione paritaria. Per questo molti osservatori vedono nell’atteggiamento americano l’idea di un continente che deve “responsabilizzarsi”, sì, ma restando subordinato: pagare la sicurezza, accettare restrizioni commerciali, rinunciare a competere davvero sul terreno tecnologico e militare. In cambio, viene garantita una protezione condizionata e una partecipazione à la carte alle crisi globali.
Il rischio è che l’Europa stessa, abituata a pensarsi come comunità economica, finisca per accettare questa trasformazione come naturale. Se diventa soltanto un mercato, tutto ciò che è politico, culturale, simbolico e strategico evapora: resta una grande zona di libero scambio senza voce, dove altri decidono priorità e direzioni.
Eppure la scelta non è irreversibile. La domanda è se l’Europa voglia davvero ridursi a questo ruolo o se intenda rivendicare una posizione autonoma in un mondo che non le farà sconti. Le potenze globali hanno già assegnato al continente la parte del mercato da sfruttare. Ora spetta agli europei decidere se restare fermi in quella casella o provare a riscrivere la partita.





