Ultimi giorni dell’anno, tempo di bilanci. Il 2024 non è certo stato facile per questo governo, che nel suo tentativo (a dire il vero assai maldestro) di creare un’egemonia culturale, si è trovato sulle spalle diversi anniversari scomodi. Abbiamo cominciato col centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, che al di là di una scontata retorica celebrativa, non è proprio riuscito a evitare incauti tentativi di riscrittura del passato.

Assai formale e ben poco sentita è parsa l’intitolazione di una targa, sullo scranno dove il deputato socialista pronunciò il discorso del 30 maggio 1924 che gli sarebbe costato la vita, dopo aver denunciato i brogli elettorali. Perché a Matteotti, brutalmente assassinato dalle squadracce fasciste, si dovrebbe ben più di un ricordo formale.

E soprattutto, sarebbe stato quantomeno delicato, scegliere di non dedicare un francobollo a Italo Foschi, che è stato sì un buon organizzatore delle politiche sportive (tra i fondatori dell’As Roma e del Coni) ma anche un dirigente del partito nazionalista, animatore delle piazze interviste che al fascismo aveva aderito con così tanta convinzione, da collaborare con Amerigo Dumini per la costituzione della polizia segreta voluta da Mussolini sempre pronta a menare le mani contro anarchici, socialisti: in una parola, “disfattisti”, sabotatori della Nazione.

La denuncia di Matteotti

Matteotti (tanto per tornare alla storia, al di là della retorica) era stato fra i primi a rendersi conto del carattere “totalitario” del fascismo, e lo aveva denunciato, fin dal 1919 (anche quando Gaetano Salvemini o Giovanni Amendola lo avevano sminuito come “carnevalata”); soprattutto Mussolini aveva fondato il movimento dei fasci di combattimento, presentandosi come il salvatore della patria.

Il capo di quei “figli migliori della nazione” ex arditi e combattenti nelle trincee, seguaci di un nazionalismo reducistico, animato dal culto del sangue e della morte. Con la farsa della marcia su Roma (non un’insurrezione armata ma un’abile minaccia per far precipitare la crisi politica verso una soluzione extraparlamentare) il capo di un partito armato aveva radunato i giovani della media borghesia, dinamici, spavaldi, infatuati dalla cultura dell’odio, desiderosi di annientare il nemico, animati da un profondo disprezzo per la democrazia parlamentare.

Le squadracce avevano messo a ferro e fuoco il paese con assalti, incendi e devastazioni a sedi di partito e camere del lavoro, bastonato e accoltellato avversari politici, aggredito e umiliato a colpi di manganello e olio di ricino. Ma in nome della pacificazione, si era pensato di poterli coinvolgere in un governo di coalizione (per poi rigettarli nell’anonimato una volta costituzionalizzati). Insomma, a 100 anni dalla fine di Matteotti ci saremmo aspettati un’analisi un po’ più seria e consapevole del fascismo storico, che non la solita banalizzazione retrospettiva del regime bonario, da operetta, autoritario e antiliberale sì, ma tutto sommato non violento come il nazionalsocialismo tedesco.

Per esempio, sarebbe stato utile riflettere sui discorsi di Mussolini, come quello di Cremona pronunciato nel settembre 1922, quando il futuro Duce non aveva usato mezzi termini per denunciare «la stoltezza dello Stato liberale; che dà la libertà a tutti, anche a coloro che se ne servono per abbatterlo. Noi non daremo questa libertà». Continuano invece a risuonare a chiare lettere le pressanti richieste di una memoria condivisa (in un paese non pacificato) che soffre di clamorosi processi di rimozione collettiva e di ignoranza del proprio passato.

La scelta di Meloni

Ma le scelte, si sa, hanno la loro importanza: e la decisione della presidente Meloni di non prendere parte alle celebrazioni per i 50 anni della strage di Piazza della Loggia a Brescia è suonata come l’ennesima occasione mancata. Sarebbe stato bello vederla sul palco a ricordare quegli insegnanti, assassinati il 28 maggio 1974 dallo scoppio di una bomba piazzata in un cestino dei rifiuti, per mano di gruppi terroristi neofascisti.

Forse col 2025, anno dell’ottantesimo anniversario della Liberazione, abbiamo ancora una speranza. Magari la presidente del Consiglio (come fece più volte De Gasperi) prenderà parte alle celebrazioni per la strage delle Fosse Ardeatine, quando 335 ostaggi, detenuti per antifascismo nel carcere di Regina Coeli o a Via Tasso, furono massacrati dalle SS del tenente colonnello Herbert Kappler, in alcune cave di pozzolana abbandonate alla periferia di Roma. Mira, figlia del partigiano Emidio Micozzi non ha mai smesso di ricordare che «fecero tutto di nascosto» e che «la lista la fecero i fascisti. Potevano farli scappare. Invece li consegnarono ai tedeschi».

Ecco, forse è giunto il momento di ridare valore alla storia (senza ribaltare torti e ragioni): di dire, con onestà intellettuale, che i caduti in quel massacro non erano lì perché tutti italiani (c’erano disertori austriaci, ungheresi, persino un ex fascista come Aldo Finzi, divenuto oppositore di regime per le leggi razziali).

Oggi grazie alle prove su Dna e all’instancabile lavoro dei famigliari delle vittime conosciamo l’identità di 9 delle 12 salme rimaste per molto tempo ignote. È giunto anche il momento di dire che quei morti erano lì perché avevano fatto una scelta: dolorosa, sofferta, difficile e carica di responsabilità. La scelta di una guerra giusta chiamata Resistenza, per restituire libertà e dignità al paese che al fascismo aveva dato i natali.