Destinati a riserva circa 2 miliardi. Decisione già presa da Unicredit e che anche Mediobanca dovrebbe ufficializzare oggi, vanificando così 1,4 dei 2 miliardi di incassi previsti dal governo
MILANO — Anche Intesa Sanpaolo non pagherà la tassa sugli extraprofitti bancari, introdotta dal governo con il blitz d’agosto e resa legge il 9 ottobre, scegliendo l’opzione di evitarla accantonando riserve non distribuibili per 2,5 volte l’importo.
Un’opzione che si è rivelata, in tre giorni, un boomerang per l’esecutivo, che in estate condusse una strenua battaglia politica con il settore, gli investitori e anche al suo interno – Forza Italia era contro – per incamerare fino a 2 miliardi di euro di «profitti ingiusti» (copyright Giorgia Meloni) realizzati dalle banche dopo tanti rialzi dei tassi Bce contro l’inflazione. I profitti, giusti o ingiusti, corrono copiosi. Ma dei 2 miliardi sperati, e dovuti entro metà 2024, all’Erario resterà qualche spicciolo.
Il cda della maggior banca italiana ieri «ha deliberato che proporrà all’assemblea della capogruppo» (e questa darà indicazione alle controllate Fideuram, Isp Private Banking e Isybank), di destinare a riserva non distribuibile un importo «pari a 2.069 milioni, corrispondente a 2,5 volte l’ammontare dell’imposta del gruppo di 828 milioni». Solo il 3 novembre l’istituto darà i conti trimestrali: la media degli analisti stima un utile netto di 1,74 miliardi, che accrescerà il capitale e consentirà dicreare la riserva “antitassa” senza compromettere gli impegni presi sulla remunerazione ai soci. A giugno Intesa aveva alzato le stime di utile netto 2023 a 7 miliardi, e l’ad Carlo Messina aveva promesso 5,8 miliardi nell’anno tra i dividendi amaggio, la seconda tranche del buy back e l’acconto dividendo a novembre. Messina oggi illustrerà il programma da 1,5 miliardi «contro le disuguaglianze e a favore dell’inclusione finanziaria educativa e sociale», da spendere fino al 2027 «considerando gli importi destinati alle iniziative e quelli relativi ai costi delle strutture a supporto». Si tratta del «principale programma per il sociale promosso in Italia da un soggetto privato», ha detto Messina, rimarcando «il forte aumento delle disuguaglianze nel Paese».
Martedì sulla “tassa Meloni” era uscita Unicredit, che l’ha stimata 440 milioni ma l’ha evitata accantonando a riserva non distribuibile 1,1 miliardi. «La legge dà due opzioni: pagare la tassa o rafforzare le riserve – ha detto l’ad Andrea Orcel –. Abbiamo scelto la seconda, che oltre a essere più razionale è coerente con ciò che da anni la banca fa: una generosa erogazione di utili ai soci e il contestuale rafforzamento patrimoniale ». Unicredit ha promesso «almeno 6,5 miliardi» ai soci.
Per paradosso proprio la forza patrimoniale delle banche le spinge a snobbare la tassa, rafforzando il capitale senza rinunciare a ricchi dividendi e riacquisti di azioni. Oggi tocca a Mediobanca: la media degli analisti stima un utile netto trimestrale di 315 milioni, e tutti gli indizi fanno pensare che preferirà tesaurizzare circa 250 milioni che pagare i circa 100 milioni che gli analisti stimano valga la sua imposta. Tre banche leader in tre giorni hanno già vanificato 1,4 miliardi di tassa sugli extraprofitti: il 70% di quanto sperava il governo.