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9 Dicembre 2023il reportage nella striscia
di Davide Frattini
La sabbia ha ricoperto tutto come se fosse caduta dall’alto, invece è riaffiorata da sotto, i carrarmati hanno dissodato il verde delle coltivazioni, aratri senza semina che si lasciano dietro terra arida. La jeep dell’esercito passa attraverso la barriera squarciata il 7 ottobre all’alba dai terroristi palestinesi, adesso c’è un cancello, da qui in avanti le chiavi le tengono gli israeliani, queste aree sono le prime a essere state invase dalle truppe, restano un campo di battaglia.
L o Stato Maggiore vuole stabilizzare il Nord della Striscia mentre procede con l’offensiva a sud, mentre accerchia Khan Younis, la città dov’è nato Yahya Sinwar, capo dei capi di Hamas. È lui che con Mohammed Deif, il comandante militare, ha pianificato gli assalti, 1.200 israeliani ammazzati.
L’erba è scomparsa per chilometri, resta il rumore costante da falciatrice dei droni che sorvolano il territorio, i soldati sono ormai ovunque e indicano da vicino gli eventuali obiettivi da colpire. Anche le dune verso il Mediterraneo hanno cambiato forma, il vento della guerra ne ha innalzate di nuove, le collinette tirate su dai bulldozer per creare postazioni su cui si stendono i fanti di questo battaglione formato da riservisti. Da queste parti significa avere 25 anni o un po’ di più come Gal Eisenkot: è stato ucciso giovedì non lontano da queste macerie tra le altre macerie di Beit Lahia, il padre Gadi fa parte del consiglio ristretto guidato dal premier Benjamin Netanyahu, della squadra che decide il conflitto.
I segni di chi è scappatoLe vie strette di Atatra mantengono l’andamento della normalità: le curve, le svolte, le corte salite per arrivare a quella che poteva essere una piazza. I resti dei palazzotti grigi mal intonacati ancora si affacciano verso lo spazio vuoto e svuotate sono ormai le case: portoni che si aprono sul niente, finestre che mostrano il tramonto sul mare, al secondo piano di un primo che non c’è più. Nella devastazione resistono i segni di chi abitava questi quartieri: un’altalena blu, il chiosco in legno per le bibite. «Gli uomini di Hamas hanno usato questo parco giochi come base di lancio per i razzi contro le città israeliane», commenta il colonnello Maoz, è possibile pubblicarne solo il nome, quest’articolo è stato rivisto dall’esercito per evitare la diffusione di informazioni riservate, come viene richiesto ai giornalisti portati nelle aree dei combattimenti.
Labirinto sotto terraLe battaglie sono avvenute casa per casa, continuano cunicolo per cunicolo, dalle gallerie scavate per anni sbucano i paramilitari jihadisti che hanno sfruttato la settimana di tregua fino a giovedì scorso e sono ritornati nei villaggi a nord, quelli spopolati dalla paura delle bombe e dagli ordini di evacuazione verso le aree più sicure indicate sui volantini dell’esercito. Alcuni emergono dalle segrete e restano disorientati perché non ritrovato i vecchi riferimenti come la moschea, il paesaggio è cemento frantumato.
La lastra di metallo copre un tunnel verticale con pareti rinforzate, scende per una decina di metri, la scala di ferro ben piantata per andar giù e risalire in fretta. La botola provvisoria serve a evitare che qualche soldato ci caschi nel buio, ormai lo scavo è disarmato, non è più parte delle tattiche offensive di Hamas, gli ufficiali non spiegano perché non sia stato fatto esplodere, gli scienziati di Tsahal avrebbero creato una bomba spugna che li tappa sul fondo, li isola dal reticolo sotterraneo. «È stato costruito in mezzo agli edifici, perché i fondamentalisti attaccano mischiandosi alla popolazione civile», continua il colonnello, i morti palestinesi sono oltre 17 mila, i combattenti sarebbero un terzo. Il buco è a mezzo metro da un palazzotto più decorato degli altri, le mattonelle bianche sbrecciate ricoprono la facciata, miseri lussi nella miseria: la maggior parte degli abitanti vive sotto la soglia di povertà, i miliardi consegnati nel tempo dal Qatar ad Hamas — con il beneplacito di Netanyahu — non sono serviti a far superare loro quell’asticella della disperazione.
Lo scontro decisivoDall’altra parte del confine Yoav Gallant, il ministro della Difesa, annuncia che il gruppo «sta cominciando a cedere», è in visita alle truppe schierate attorno alla Striscia su cui l’organizzazione terroristica spadroneggia dal 2007, da quando l’ha tolta con le armi al presidente Abu Mazen. Il colonnello Maoz — il volto smagrito di chi qua dentro ha combattuto troppe volte, c’era anche tra luglio e agosto del 2014 — conferma: «Gli estremisti si ritirano quando gli scontri faccia a faccia diventano troppo duri». Quelli che si consegnano «sono sempre di più», dichiara Daniel Hagari, portavoce delle forze armate, gli altri — ancora migliaia — si stanno raggruppando e asserragliando proprio a Khan Younis, dove si deciderà questo scontro. Maoz ripete che dopo i massacri del 7 ottobre i jihadisti non possono più esistere, di sicuro non a pochi chilometri dai kibbutz devastati negli attacchi, di sicuro «non con le armi che requisiamo anche nelle camerette dei bambini, nascoste sotto i loro letti o tra i loro vestiti».
La velocità di reazione per le manovre in una zona così ristretta — 42 chilometri di lunghezza e in alcuni punti una larghezza di soli 6 — è fondamentale. Gli accampamenti, almeno qua attorno, non sono stati allestiti, i soldati dormono uno sull’altro nelle scatole blindate che sono i Namer, un ibrido di nuova progettazione tra il classico — e in parte antiquato — tank Merkava e un veicolo per il trasporto truppe: ha accelerato le incursioni, l’avanzata cadenzata dai giri del motore e non dai passi della marcia, i militari salgono e scendono dal portellone posteriore, se c’è da sparare.
Fiamme al tramontoIl buio dell’autunno mediorientale cala presto, le strade belliche mostrano ormai cartelli con il numero e le indicazioni in ebraico, il via vai dei mezzi è continuo, si creano ingorghi, la polvere alzata ancora più densa dell’umidità che arriva dal mare. I vasi di ferro arrugginiti stanno uno a fianco all’altro, un candelabro improvvisato. Nell’oscurità il rosso delle fiamme raddoppia in un istante, gli israeliani celebrano da giovedì la festa di Hanukkah, restano sei fuochi da accendere, il rogo di questa guerra durerà molto di più.