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Flick: né la Chiesa né la Corte costituzionale hanno cambiato posizione sul tema, hanno preso atto dell’evoluzione scientifica Per il presidente emerito della Consulta serve l’intervento del legislatore, ma deve salvaguardare la persona e la sua dignità
Molto si è parlato nelle scorse settimane di un presunto allargamento delle maglie sulle circostanze di non punibilità dell’aiuto al suicidio, che la Corte costituzionale avrebbe operato con la recente sentenza 135 del mese scorso. In quella pronuncia i giudici di Palazzo della Consulta hanno in realtà precisato il concetto di «trattamento di sostegno vitale» e di «riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività». Quindi anche quelle pratiche che di solito vengono eseguite da personale sanitario, da caregiver o da familiari, «sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo». In ogni caso, tuttavia, la Corte ha ribadito che non esiste né è invocabile un “diritto di morire” nel nostro ordinamento, al centro del quale c’è invece la «tutela della vita umana», un «bene che “si colloca in posizione apicale nell’ambito dei diritti fondamentali della persona”».
Allo stesso modo, si è dato per scontato un mutamento della posizione della Chiesa cattolica sul tema dopo la pubblicazione del volume “Piccolo lessico del fine-vita” (Libreria Editrice Vaticana) a cura della Pontificia Accademia per la vita. Ma nel libro, citando diverse espressioni del Magistero papale, si ribadisce tra l’altro che «le singole funzioni dell’organismo, nutrizione inclusa – soprattutto se colpita in modo stabile e irreversibile –, vanno considerate nel quadro complessivo della persona e della sua dimensione corporea ». Dunque sospendere la nutrizione in caso di malattia «stabile e irreversibile» e «con possibilità praticamente nulle di recupero» può essere il modo per evitare forme di accanimento sulla persona.
Su queste pagine l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontifica Accademia per la vita, ha sottolineato come «la questione fondamentale del fine vita» resta «l’accompagnamento », in primo luogo con le cure palliative, sostenendo la necessità del confronto per una legge perché «il vuoto legislativo rischia di favorire l’allargarsi di una cultura dell’abbandono che porta verso l’eutanasia ». (r.r.)
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«Né la Chiesa né la Consulta hanno modificato il loro orientamento sul “fine vita”. Il “Piccolo lessico del fine-vita” recentemente licenziato dalla Pontificia Accademia per la vita non fa altro che facilitare, ora, un intervento legislativo sulla delicata materia, peraltro a lungo sollecitato e ora fattosi doveroso e urgente». Giovanni Maria Flick presidente emerito della Consulta ed ex Guardasigilli interviene sul documento approvato dall’organismo vaticano presieduto dal’arcivescovo Vincenzo Paglia.
Come giudica il dibattito suscitato dal documento della Pontificia Accademia?
C’è chi ha usato giri di parole anche suggestivi per stroncare di fatto l’aiuto al dialogo sul fine vita proposto dalla pastorale ecclesiale. Invece di partecipare allo scontro fra opposti – nell’enfasi prevedibile per il Ferragosto e per l’attualità del tema – cerca di rispondere alle difficoltà di interpretare concetti difficili da capire, e troppo spesso usati a sproposito dall’una o dall’altra parte. Alcuni hanno esaltato, altri al contrario hanno vituperato una sorta di “mediazione” della Chiesa a favore dell’una o dell’altra parte contendente “per la vita” o “per la morte”. Un “compromesso” che in realtà non esiste.
Vede possibile il dialogo su temi così delicati?
Pretendere di inserire nel dialogo l’affermazione aprioristica e drastica che la verità sia da una parte sola e si debba affermarla esplicitamente, si risolve in realtà in una sua negazione sostanziale, il dialogo apparente diventa in realtà inutile e dannoso. In una Repubblica pluralista e laica (non laicista) come quella proposta dalla nostra Costituzione è inevitabile sul piano giuridico l’alternativa non tra il “sì-sì” e il “no-no”, ma quella fra il “sì”, il “no” e l’ “oppure”. Purché la scelta fra essi non si risolva in un’offesa alla vita e alla sua dignità, nel loro valore intrinseco e ineliminabile delineato chiaramente dagli articoli 2 e 3 della Costituzione.
Che requisiti deve contenere un intervento sul fine vita?
La chiarezza, la trasparenza so-no requisisti indispensabili della successiva scelta e ricerca della verità ad opera di ciascuno. La sua responsabilità è parte essenziale della capacità di auto-determinazione. Prima va cercata la verità nel dialogo, la scelta di quella verità è il risultato di quel dialogo e di quel confronto.
Si sostiene che la Consulta e anche la pastorale ecclesiale avrebbero cambiato linea.
Né la Chiesa né la Consulta hanno mutato il loro atteggiamento sul fine vita. Il “Piccolo lessico” continua a interpretare la posizione tradizionale della Chiesa nella storia. Solo, la Chiesa e la Corte nella sua ultima sentenza hanno doverosamente e giustamente preso atto dell’evoluzione tecnico- scientifica e dell’ampliamento del concetto di “trattamento di sostegno vitale”, definito ed esemplificato nel suo intervento del 2018.
Che cosa cambia, allora?
Nella prospettiva laica la presenza di quel sostegno vitale consente l’aiuto di un terzo nella scelta consapevole di anticipare la propria morte in condizioni di infermità irreversibile e di sofferenza fisica intollerabile. La persona può scegliere fra la richiesta di un aiuto, e soltanto in questo caso non è punibile l’aiuto stesso, o nella sua discrezione può invece continuare con le cure palliative e/o la sedazione profonda in attesa della propria morte. Soltanto in questo caso la Corte Costituzionale ritiene giustificato, si badi bene, non il riconoscimento di un diritto all’aiuto, ma più semplicemente la non punibilità di quest’ultimo, che resta sempre punibile in ogni altro caso. La Corte continua quindi a ritenere punibile sia l’eutanasia sia il “suicidio assistito” in termini generali.
Che fare, dunque?
Si continua a chiedere, dal mio punto di vista giustamente, l’intervento del legislatore nazionale, l’unico titolato a decidere sul tema del “fine vita”, come riconosce anche la Cedu. Possiamo aggiungere che la Corte ha anticipato la decisione penale sul tema, in modo coraggioso e forse troppo audace, secondo l’opinione di molti, tra cui il sottoscritto. Il legislatore ora ha il diritto-dovere di completare il quadro, già in parte elaborato nella legislatura precedente e approvato in un solo ramo del Parlamento secondo il quadro definito in larghe linee dalla Corte.
Ma, alla fine, chi dovrà decidere sul fine-vita, nel singolo caso?
La valutazione e l’accertamento, con tutte le relative modalità e requisiti per il percorso del fine-vita spetterà ai protagonisti (sanitari, giudici, congiunti) nei modi che verranno fissati dal legislatore nazionale. Le speculazioni dotte sul pro, sul contro, sulle alternative e opportunità praticate in altri Paesi sono rispettabili, anche se in molto casi esse diventano oggetto di una strumentalizzazione del dolore, della sofferenza e della morte.
Quale è il suo auspicio?
Io sono tra coloro che attendono con speranza una conclusione serena del legislatore.