Flavia Perina
Alla lotteria del voto sardo la destra perde per eccesso di sicurezza e ci sarà da lavorare per impedire che l’esito delle Regionali produca un rodeo senza regole. Ciascuno degli alleati ha qualcosa da rimproverare all’altro. Matteo Salvini a Giorgia Meloni: l’imposizione di Paolo Truzzu, fedelissimo della premier, sindaco assai poco amato di Cagliari, a dispetto dell’uscente Christian Solinas. Giorgia Meloni a Salvini: il crollo della lista leghista e il voto disgiunto che ha portato Truzzu ben sotto le quote raggiunte dalla coalizione. Antonio Tajani a tutti e due: l’eccesso di litigiosità e dispetti che, per la prima volta, ha azzerato la regola del «vinceremo sempre contro un’opposizione divisa».
Nella infinita maratona di ieri, con i risultati che arrivavano col contagocce, la maggioranza ha sperato a lungo di tenere in piedi la prospettiva di una vittoria in extremis, magari approfittando della norma-tagliola vigente in Sardegna che avrebbe consentito il rinvio della partita al conteggio degli uffici centrali. Un pasticcio già visto nel 2019, quando il risultato finale della contesa fu reso noto e certificato addirittura due mesi dopo la prova elettorale. Il potenziale scenario trumpiano – seggi chiusi alle 19, scrutatori mandati a casa, plichi sigillati e spediti chissà dove, sospetti di brogli – deve aver provocato legittimi sussulti. E allora, niente tagliola, spoglio sbloccato, avanti a oltranza, con i tre leader del centrodestra riuniti in un inusuale pranzo a Palazzo Chigi per concordare una linea di limitazione del danno per i prossimi giorni.
Quanto reggerà quella linea? Sulla capacità di tenerla in piedi si fonda la continuità della narrazione politica del centrodestra, che dai tempi di Silvio Berlusconi promuove l’idea di un patto inaffondabile tra centristi, destra e leghisti sotto la guida «di chi prende più voti», in contrapposizione con le lacerazioni e gli esperimenti della sinistra, con le sue alleanze variabili e asimmetriche, le sue scissioni, il suo viavai di uomini e formule di intesa. La premier ha fatto suo quel racconto e ha trasformato questa prima prova dopo le Politiche in qualcosa di più di un test locale: la certificazione del suo ruolo di capo-coalizione in uno schema che non cambierà. Il comizio di chiusura a Cagliari è servito quasi esclusivamente a questo. «Noi non stiamo insieme per costrizione, stiamo insieme da trent’anni» (Meloni). «In Giorgia non ho trovato un’alleata o un’ottima presidente del Consiglio ma un’amica, e questo fa la differenza» (Salvini). «Nessuno di noi vuole andare a pescare nel mare degli alleati, non ci rubiamo voti tra alleati». (Tajani).
Facile a dirsi, soprattutto in un contesto vincente. Ma davanti a una imprevista sconfitta, tenere a bada gli animi sarà difficile. Per il mondo di Meloni, soprattutto, il dopo-voto sarà un complicato esame di maturità. È vero che il governo della destra non rischia nulla e che FdI potrà ritrovare le sue sicurezze al prossimo giro, in Abruzzo e Basilicata, competizioni più scontate. Tuttavia dovrà essere accantonata l’idea di andare a traino di una leader fatata, capace di intronare cavalieri e dame con il solo tocco della sua spada. Anche questo è un retaggio dell’età berlusconiana che trasformò in principi del regno legioni di sconosciuti amici del Cavaliere, medici e commercialisti, igieniste dentali ed esperti di pubblicità. Ma erano altri tempi e soprattutto un altro livello di potere. Quel tipo di bacchetta magica non esiste più. Il consenso della premier, per quanto appaia solido, non si riverbera automaticamente su chi la circonda. Il suo volto sui manifesti non basta a fare i risultati. I successi, personali e di gruppo, andranno conquistati uno per uno.
Poi, certo, c’è la riflessione sui candidati perché il voto sardo (già qualcuno comincia a dirlo sottovoce) fa il paio con un’altra elezione “di bandiera” clamorosamente fallita dalla destra: quella del sindaco di Roma nel 2021, quando si scelse come candidato Enrico Michetti, anchorman delle reti private della città, micidiale gaffeur, sconfitto malamente e poi indotto addirittura al ritiro dal Consiglio comunale. Anche in quel caso fu una prova di forza rispetto agli alleati che spingevano per Guido Bertolaso: FdI prevalse grazie alla sua indiscutibile primogenitura nella Capitale. Il mormorio che si percepisce adesso è lo stesso di allora: «Ma ‘sti candidati come ce li scegliamo?», «Ma davvero credevano che Truzzu potesse farcela?». Queste le domande, questo il clima ieri sera, mentre Elly Schlein e Giuseppe Conte già volavano verso la Sardegna per festeggiare Todde.
A cento giorni o poco più dalle Europee e dal “libera tutti” di una campagna percepita come questione di vita e di morte, la sconfitta sarda della destra segna uno spartiacque per molti motivi. Interrompe una lunghissima serie di Regionali vittoriose, Calabria, Sicilia, Lazio, Lombardia, Friuli, Molise, Trentino. Segnala il declino leghista in proporzioni inaspettate. Boccia un candidato espresso direttamente dalla premier, con l’onta di un voto personale inferiore a quello della coalizione. Insomma, uno choc. Per paradosso, potrà determinare persino effetti positivi se sarà affrontato con lucidità, mettendo mano a una nuova fase delle relazioni interne della maggioranza. Se prevarranno altri impulsi, il desiderio di rivincita di Salvini o l’istinto meloniano a blindare la sua roccaforte, il rodeo sarà inevitabile e spettacolare.