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7 Dicembre 2025Ritratti La scomparsa a Los Angeles dell’architetto del Guggenheim di Bilbao, della Disney Hall Concert di Los Angeles e le case danzanti (Ginger e Fred) di Praga. Con le sue soluzioni sperimentali ha cambiato lo skyline di molte città e modificato profondamente lo status della sua professione, attirando anche le simpatie degli artisti d’avanguardia
Venerdì 5 dicembre è morto nella sua casa di Los Angeles Frank Gehry, uno dei massimi architetti del nostro tempo, certamente tra i pochissimi noti anche al di fuori del pubblico degli specialisti. Aveva 96 anni.
Autore di alcuni degli edifici contemporanei più conosciuti al mondo, Gehry nasce Frank Owen Goldberg in un sobborgo di Toronto nel 1929. Dopo la metà degli anni ’40 i Goldberg si trasferiscono a Los Angeles, ed è nella metropoli californiana – che tanta importanza avrà nella definizione della sua maniera espressiva – che il giovane canadese comincia ad avvicinarsi lentamente all’architettura. Non è un genio precoce, non ha i mezzi per una formazione universitaria d’élite; da adolescente alimenta il suo inconscio creativo trafficando nel negozio di ferramenta del nonno. Si iscrive alla Usc (University of Southern California) per studiare ceramica. Progressivamente, un paio di incontri importanti – tra cui il modernista Raphael Soriano – e il clima politico, artistico e «aperto a tutto» della Los Angeles degli anni ’60 spingono Gehry, che nel frattempo ha cambiato cognome «per sfuggire all’antisemitismo», verso l’architettura.
DOPO LA LAUREA e gli inizi da architetto commerciale comincia a dedicarsi alla sperimentazione di forme e materiali, irresistibilmente attratto dall’anticonformismo degli artisti losangelini. «Mi ribellavo contro tutto», spiega lui stesso. I suoi nemici principali in quel periodo sono due: il «purismo» dell’architettura modernista – fatta di angoli retti, vetro, pareti lisce, tipica dell’accademismo East Coast – e il cattivo gusto del postmodernismo più reazionario, che in quegli anni trionfa negli Stati Uniti. A questi avversari Gehry contrappone due armi micidiali: l’uso di materiali e metodi costruttivi ordinari – assi di legno, ondulina, tegole shingle, cartone la spazialità di capannoni e granai – che avvicinano il suo lavoro a un gusto «popolare»; e la libertà assoluta della forma, che gli vale la simpatia degli artisti, di chi cerca qualcosa di radicalmente nuovo, di chi si aspetta ogni giorno di trovare la vera architettura della democrazia.
Dal «nuovo Gehry» che esce dai vivacissimi anni Sessanta californiani cominciano a nascere i progetti che attireranno attenzione e curiosità da tutto il mondo: prima i mobili di cartone e la semplicità pop della casa-studio dell’artista Ron Davis (1970), uno dei suoi compagni di strada; poi l’intuizione folgorante con la quale, nel 1978, trasforma il villino che ha comprato a Santa Monica in un autoritratto architettonico. In pratica, invece di ristrutturare il vecchio edificio, lo avvolge in una sequenza di superfetazioni e spazi irregolari, realizzati «con i materiali più insignificanti che vedevo nel quartiere»: bandone, assi di legno, rete da pollaio e da materasso, tegole di legno. Un’accozzaglia di forme e materiali che scandalizza i vicini ma proietta Gehry al centro della critica architettonica globale.
Da quel momento in poi la sua carriera è un cursus honorum formidabile. Negli anni dissemina a Los Angeles alcuni lavori sorprendenti: case e studi per artisti ma anche luoghi pubblici di valore urbano, come il Temporary Contemporary (’83), un centro di ricerca artistica che ancora caratterizza Downtown Los Angeles, e il centro commerciale Santa Monica Place (1981), dove estende alla grande scala materiali e soluzioni sperimentati nel micro-lotto di casa sua.

ALLA FINE DEGLI ANNI ’80 Gehry è una star inseguita anche dai committenti più ambiziosi fuori dagli Stati uniti: la Vitra gli commissiona uno dei padiglioni del suo campus di Weil am Rhein, dove cominciano a comparire – insieme a un progetto a Toledo, Ohio – i collage di volumi curvi che costituiranno la sua cifra negli ultimi decenni del secolo. Nel 1988 viene incluso nella mostra epocale del Moma Deconstructivist Architecture, che consacra le nuove grandi star dell’architettura post-postmoderna, anche se Gehry, con le elucubrazioni linguistiche dei colleghi appassionati di filosofia, ha ben poco a che fare. Insieme alla Hadid incarna l’ala più artistica di quella compagine poco omogenea.
È ALLA SUA LUCE che fa appello il direttore del Guggenheim, Thomas Krens quando decide che è ora di tirar fuori un po’ degli innumerevoli capolavori che il museo ha nei magazzini ed esporli in franchising in nuovi spazi realizzati in collaborazione con le città. Nasce così, nel 1987, il Guggenheim Bilbao, la grande balena di titanio e zinco spiaggiata sull’ex banchina industriale della città basca. È un progetto capace di produrre un cambio di status sociale per l’architettura contemporanea: da materia per specialisti, amministratori e storici dell’arte di larghe vedute diventa argomento di conversazione per tutti. La Lufthansa mette in copertina della sua brochure la foto dell’edificio (1,5 milioni di visitatori il primo anno), il New York Times titola Dreams come true, docenti e studiosi osservano rapiti un fenomeno che non sanno classificare.
Nasce anche l’«effetto Bilbao», grazie al quale i sindaci di tutte le grandi città del mondo vorrebbero avere un loro ipermuseo e un loro Gehry, capaci di attirare milioni di turisti e celebrare l’era di pace, cultura e ottimismo economico che l’Occidente crede di attraversare nella prima fase della globalizzazione. In parallelo al Guggenheim, Gehry lavora alla Disney Concert Hall, un altro Laocoonte architettonico argenteo che cambia lo skyline del centro di Los Angeles. Il progetto è costoso e incontra difficoltà, ma l’autore ci tiene moltissimo e convince la famiglia Disney a contribuire alla ricerca dei fondi.
LE OPERE DI GEHRY cominciano nel frattempo a diffondersi in Europa: un edificio per un imprenditore americano a Parigi, Ginger e Fred (due cilindri di vetro tortuosi e danzanti) nel centro di Praga, un cortile interno berlinese per la Deutsche Bank. In Italia le opere di Frank sono all’epoca amate dagli artisti (Celant gli dedica una mostra nel 1986) e guardate con stupore e perplessità dagli architetti: cosa accadrà quando gli studenti cercheranno di copiare qualcosa che non si può copiare? In realtà non succede nulla di grave.

IN TUTTO IL MONDO i giovani imparano ciò che si può imparare: che ogni materiale è «nobile» se usato con intelligenza, che oggi per le forme architettoniche non esistono canoni, che l’energia del passato (barocco?) può scorrere nelle nostre vene senza frenare la mano. Ma rinunciano rapidamente a copiarne le forme, impossibili da trasformare in regole di comportamento architettonico. L’Electa gli dedica una monografia monumentale nel 1998; nel 1996 la nuova serie di Casabella si apre con un’ampia sezione dedicata al progetto dell’auditorium, per spiegare il «metodo» gehriano, un misto di lavoro «a mano» sui modelli e di strumenti digitali. Nel 2002 l’aeroporto di Venezia gli commissiona un terminal per natanti, destinato a rimanere su carta. Gehry in Italia rimane un mito senza progetti realizzati, ma sempre più amato anche da architetti e studiosi.
Con lui se ne va anche un’epoca dell’architettura della tarda modernità, fondata sul carisma inarrivabile dell’autore sublime e sulla fiducia nella possibilità di committenti e costruttori di accontentarne qualsiasi desiderio formale e spaziale. Sempre sospeso – come non può non essere l’architetto – tra ribellione e resa ai meccanismi del capitalismo, Gehry prima smonta il dogma novecentesco secondo cui l’autore bravo è quello che si riflette in una scuola, accentuando la percentuale di arte nel «nostro» lavoro; poi porta l’individualismo creativo a vette tali che dopo di lui non varrà più la pena provarci. Emergere come architetto-inventore, dopo Gehry, dovrà essere qualcosa di diverso.





