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16 Settembre 2022
di Massimo Gramellini
Per noi devoti del culto federeriano questo è un giorno di lutto, ma anche di sollievo: non avremmo retto la vista del nostro idolo che ritorna in campo dopo una pausa infinita e viene strapazzato da qualche spara-palline con la metà dei suoi anni e un decimo del suo talento. Come ha scritto il mio correligionario Marco Imarisio, ci piace immaginare che Federer si sia ritirato nel 2019, subito dopo avere vinto l’ennesimo Wimbledon al secondo match-point contro Djokovic (in realtà lo sbagliò e poi perse la partita, almeno così mi fu detto: io per la stizza avevo già spento il televisore).
Federer è stato un atleta poetico, i suoi gesti sembravano versi in metrica: nitidi, essenziali e intrisi di quell’energica armonia che colleghiamo istintivamente all’idea universale di bellezza. Ma una simile definizione vale anche per altri geni dello sport, da Diego Maradona a Muhammad Ali. La differenza è che in loro, come in quasi tutti gli artisti, era presente una parte oscura: una sofferenza originaria, una maledizione perpetua di cui il talento rappresentava la ricompensa. L’artista Federer invece è stato pura luce senz’ombra, un uomo risolto che ha saputo domare gli istinti autodistruttivi che lo avevano indotto da giovanissimo a spaccare parecchie racchette. De André cantava: «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior». Sui campi da tennis Roger Federer ha incarnato l’eccezione: il diamante da cui nascevano i fiori.