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9 Marzo 2025Fin dalla breve e sbalorditiva raccolta di racconti con cui esordì, Il declino delle guerre civili americane, George Saunders ha indotto chi lo leggeva a chiedersi dove avesse origine una inventiva così sfavillante e al tempo stesso credibile, come se la descrizione di quanto avveniva fra le sue pagine non avesse asilo nella realtà che conosciamo, eppure fosse il ragionevole sintomo di uno stato di decomposizione del nostro stesso mondo, appena più avanzato.
Si tarda un po’, infatti, a orientarsi nei contesti che Saunders ci propone, perché non è facile rispondere alla domanda su dove ci troviamo e su quale natura abbia chi parla, sebbene contemporaneamente alle nostre perplessità la prosa scorra veloce, senza alcun intoppo semantico, come se da una profonda consapevolezza fatta di mestiere e di buon gusto discendesse una divaricazione netta tra la forma, che assecondando ragionamenti di primitivo buonsenso è fatta di frasi lineari in un lessico estremamente semplice, e il contenuto straniante, in cui parlano esseri prevalentemente artificiali, abitanti di contesti improbabili eppure strettissimamente imparentati con quelli realmenteesistenti.
Saunders è arrivato relativamente tardi alla narrativa, accumulando esperienze di frustrazione che avrebbe poi riversato sui suoi personaggi, peraltro quasi sempre serenamente allegri, come tecnico della Radian Corporation di Rochester, dove compilava resoconti sulla contaminazione delle acque sotterranee. Diversamente da lui, che cominciò fin da allora a immaginare atti di ribellione in forma di narrativa, i suoi personaggi sono spesso esempi ideali di quella che Marcuse avrebbe chiamato desublimazione repressiva, ovvero prodotti consenzienti della logica più perversa del capitalismo. Alcuni di loro lavorano in parchi a tema,dove inscenano performance rigidamente programmate, in attesa di visitatori che non arriveranno mai: ne è protagonista Ghoul nel racconto omonimo, uno dei più belli e elaborati della nuova raccolta. Altri sono umanissimi pupazzi nelle mani di un terzetto familiare che li ha programmati per il loro divertimento e per intrattenere i loro amici: così in «Giorno della liberazione», che dà il titolo al libro (Giorno della liberazione, da Feltrinelli, pp. 240, € 18,00). Di altri ancora è stata sradicata ogni attività mentale, e di conseguenza la memoria, per renderli manipolabili allo scopo di farenumero nelle manifestazioni sindacali finalizzate – questo è stato loro inculcato – a difendere gli interessi «di poveri e deboli»: il loro prototipo si chiama Elliott Spencer, e dà il titolo al racconto che lo riguarda.
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Ovvio che nessuna ombra di moralismo si proietti tra i discorsi di queste vittime zelanti di una tecnologia pervertita, ma non altrettanto scontata è la misura perfetta dell’ironia che illumina i discorsi dei personaggi senza mai pretendere di abbagliare chi legge: Jeremy, il protagonista del primo racconto, che cederà ai corteggiamenti appassionati della moglie del suo programmatore, mentre riflette sulle qualità che rendono il suo eloquio (anch’esso, ovviamente, impostato) migliore di quello dei suoi due suoi compagni, si dice: «C’è anche qualcosa di innato: talento, lo si potrebbe definire».
In «Elliot Spencer», l’interlocutore di una donna che esita nel ribellarsi al lavaggio del suo cervello, così le si rivolga: «… a volte sei troppo aziendalista». E in «L’audace mamma d’azione», una donna – in questo caso del tutto «normale», in carne ossa e cervello suoi propri – mentre si aggira per la cucina (che tiene come un porcile) cogliendo tutti i pretesti immaginabili per concepire prima e scrivere poi improbabili racconti e finalmente un vero saggio, arriva – una rilettura dopo l’altra – alle seguenti conclusioni: «Basta con la saggistica. Basta scrivere, in assoluto. Poteva essere più utile al mono preparando biscotti, per esempio».
Riportare frasi decontestualizzate non rende giustizia alla verve elegantemente spiazzante di George Saunders, né alle acrobatiche doti mimetiche della sua traduttrice, Cristiana Mennella, che trova espressioni perfettamente intonate per ogni uscita colloquiale del suo autore. Evaso indenne dai propri racconti, e dagli incendi di Los Angeles, che lo hanno spinto a andarsene al nord della California, così George Saunders racconta il suo lavoro.
Si direbbe che lei sia particolarmente specializzato nell’insinuarsi nella mente di personaggi che una mente in senso proprio non ce l’hanno; e tanto meno hanno una psiche: perché sono esseri programmati da altri, la cui memoria è stata cancellata. Come è arrivato a concepire dei soggetti simili?
Per me tutto comincia con la lingua da usare di volta in volta. Non è che decida di scrivere una storia, per esempio, su una persona il cui cervello è stato programmato; piuttosto, cerco di trovare una voce che mi sembra interessante o divertente e poi, a un certo punto, mi dico: «Fermati, perché questa persona parla così?».Credo che viviamo in un’epoca in cui siamo tutti, più o meno, e a un certo livello, impostati: da un flusso incessante di voci, provenienti da più o meno lontano, ognuna con il suo programma, che viene trasmesso nelle nostre teste, tutto il giorno, tutti i giorni.Se pensiamo a un essere umano nel XVII secolo, sappiamo che le voci risuonanti nella sua mente saranno state perlopiù quelle di amici e famigliari, insieme, magari, a un’infarinatura controllata di altre voci che provenivano dai libri.Oggi non è così, e questa idea si è in qualche modo trasferita nel mio lavoro: come saremmo, mi domando, se la nostra mente non fosse soggetta a così tante interferenze esterne, molte delle quali assai eleganti e seducenti?Dove si trova il nostro Io autentico?
Quale rapporto pensa che ci sia fra la sua immaginazione sfavillante e la sua prosa, che spesso cerca di mimare un lessico abbastanza primitivo, e prima ancora, cerca di adeguarsi aragionamenti estremamente basilari? Si direbbe che la sua è una scrittura che non vuole attirare l’attenzione su di sé…
Beh, vuole attirare l’attenzione su di sé essendo proprio come lei la descrive.Se uno scrittore fa delle scelte –per esempio, essere primitivo nel lessico e elementare nel ragionamento – ed è rigoroso nel rispettarle, ne risulterà uno stile.Non volevo somigliare a nessun altro scrittori e volevo provare a far aderire la pagina al mio io più profondo e migliore. Da giovane ero un grande ammiratore di scrittori come Hemingway, Steinbeck, Gertrude Stein, Sherwood Anderson, Henry Green, Raymond Carver, Grace Paley, Isaac Babel –autori che erano, comunque, almeno in superficie –«vernacolari» e minimalisti.Il loro modo di scrivere mi colpiva, forse perché provengo da un ambiente operaio e in qualche modo sento che la schiettezza e la semplicità sono veritiere. Inoltre, se si scrive di mondi assurdi, come faccio io, un linguaggio semplice «vende» meglio. È come se sentissi che il lettore può tollerare un solo assaggio di follia alla volta.Fatti molto strani raccontati con un linguaggio semplice e logico: sì, così mi piace. Invece, aggiungere a fatti strani una lingua sregolata, o uno stile molto letterario potrebbe essere troppo, o almeno lo era per me quando l’ho provato. Una disciplina del (chiamiamolo) primitivismo permette, nei punti in cui cede per un momento, piccole esplosioni di poesia. La costrizione favorisce il virtuosismo, come sappiamo.E l’effetto è quello di una persona stoica e contenuta che, sottovoce, si fa scappare qualcosa di molto appassionato…
Parte dell’ironia dei suoi racconti deriva dal fatto che lei immagina personaggi che vivono come schiavi dell’era digitale, totalmente solidali con chi detiene i mezzi che li hanno prodotti: «Ci sentiamo di nuovo utili, creativi, parte di una squadra», fa dire a uno di loro. Qualcosa di simile le deriva dalle sue passate esperienze di lavoro?
Sì, ho lavorato per un’azienda ingegneristica per molti anni, ancora mentre scrivevo il mio primo libro, e poiché sapevo di dover stare lì otto-dieci ore al giorno, mi andava meglio immaginare che stessi facendo qualcosa di positivo.E, in un certo senso, era così lavoravo al fianco di persone che sono diventate miei buoni amici, mantenevo la mia giovane famiglia, avevo un’assicurazione, una certa stabilità e così via.Eppure, stavamo facendo, nel migliore dei casi, qualcosa che non aveva alcun significato per noi stessi; nel peggiore – in quanto apologeti aziendali – il nostro era un lavoro moralmente nebuloso.Credo che questo sia un sintomo di ciò che definisce la nostra contemporaneità: abbiamo tutti una parte in enormi sistemi cui aderiamo per ragioni diverse dalla fede, dalla passione, dall’amore.Per guadagnarci da vivere o partecipando, in quanto membri di una nazione, a un sistema sul quale esercitiamo un controllo molto limitato, se non addirittura nullo.Eppure… la vita continua.Vogliamo ancora essere allegri, amare, divertirci e così via.A volte, per vivere positivamente tutto questo, le persone sono costretta e deformarsi, come un drappeggio che si trova a dover coprire qualcosa di niente affatto bello.
Nel racconto titolato «Lettera d’amore», un nonno – che è una sorta di apologia della normalità – scrive al nipote: «Essere saggi, adesso, equivale ad adattarsi con la massima intelligenza». Sembra una frase al cui buon senso non si può se non ribellarsi. Ma forse non tutti la pensano così: lei immagina che questi altri non siamo i lettori ideali dei suoi libri?
Penso che tutti noi vorremmo ribellarci a quelle parole, ma credo anche che la paura di farlo,nel mondo di questa storia, dove la posta in gioco è molto alta, sia del tutto reale. Il nipote potrebbe finire in prigione, o peggio. Se pensiamo alla Russia stalinista o alla Germania nazista, è abbastanza facile, col senno di poi, sognare di essere un eroe, ma quando si valutano le conseguenze, chi può dirlo? Questa storia è nata come un mio appassionato appello ad altri americani, affinché si svegliassero e si rendessero conto di quale fosse la minaccia cui eravamo sottoposti.E ora quella minaccia è diventata realtà.Ma un racconto deve fare di più, dal punto di vista estetico, che affermare una posizione.Lo può fare un saggio, ma non un racconto.Quando cominciai a lavorare su quella storia, mi interessava il fatto che da un lato il nonno esprime un punto di vista solido, secondo il quale l’eroismo, in una cultura autoritaria, può portare alla morte. La vita non è forse bella – dice al nipote. E tu non sei prezioso? Ma mentre sosteneva questa tesi, sentivo che il personaggio stava scivolando via, stava cercando di ritrovare il suo coraggio. Mi ha sorpreso, non me lo aspettavo. Ho trovato commovente che l’amore del nonno per il nipote si traducesse prima nella esortazione a starsene al sicuro, poi – seguendo una parte migliore di sé –a farsi vedere come un uomo coraggioso. Così, le due parti di sé del nonno si ritrovano in guerra, e questo è ciò che ha reso il pezzo un racconto breve, anziché un saggetto polemico.Come diceva Cechov, un racconto è un sistema dinamico, non deve risolvere un problema, deve solo formularlo correttamente, cioè rappresentare in modo fantasioso la tensione insita in una determinata situazione. E suscitare nel lettore questo pensiero: «Ah, sì, è proprio così che funziona in questo mondo». Quanto al mio lettore ideale, non passo molto tempo a pensarci; piuttosto mi chiedo che effetto mi farebbe quel che scrivo se lo leggessi per la prima volta.
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Qual è stato, dal punto di vista delle strategie narrative da impiegare, il racconto più difficile da scrivere?
Il più impegnativo è stato «Ghoul», perché continuava a muoversi in direzioni che non mi erano chiare. Mi interpellava a un livello molto «alto», e questo era bello e confusivo allo stesso tempo. Ho dovuto essere molto paziente con questo racconto. E ancora non so cosa «significhi» esattamente; ma grazie a tutte le ore di riscrittura che mi è costato, so è diventato ciò che intendeva essere, e che non poteva realizzarsi altrimenti. È buffo: a volte aspetto anni prima di capire il significato di una storia. Molto tempo fa,scrissi un piccolo libro intitolato The Brief and Frightening Reign of Phil (Il breve e spaventoso regno di Phil), su un uomo rabbioso, che diventa leader di un grande paese e sfoga tutte le sue frustrazioni demonizzando gli immigrati. All’epoca, alcuni critici lo liquidarono come una goffa satira di George Bush.E ora… «Hmm».
Cosa le fa più paura della situazione attuale?
Abbiamo eletto un Congresso e un Senato pieni di repubblicani che sembrano essere poco più che dei leccapiedi del presidente, il quale satura tutte le cariche importanti piazzando dei lealisti non qualificati e votati alla vendetta. Qualcosa di simile accade per la prima volta: i normali metodi di obiezione, resistenza e interruzione sono stati compromessi o resi inefficaci dai risultati di una elezione legittima.È sicuramente un periodo molto strano e buio.D’altra parte, circa metà del paese non è d’accordo: grazie al nostro bizzarro sistema, una maggioranza risicata può facilmente essere scambiata per un mandato. La crudeltà e la durezza di questa nuova amministrazione, la versione off/on di tutto quanto – immigrato = pessimo trattamento. Dipendente statale = truffatore – è drammatica. All’inizio la gente era sbalordita, e ogni giorno continua a venire annunciato qualcosa di spiazzante; ma sento si sta cominciando a farsi forza e a reagire.
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Torniamo ai suoi racconti: «Ghoul», l’unico a essere stato già pubblicato separatamente (in Italia dall’editore Zona 42, nel 2021, dopo il passaggio sul «New Yorker» l’anno precedente), è in effetti uno dei più brillanti insieme a «Giorno della liberazione» e a «Elliot Spencer», il solo a essere molto triste, dall’inizio alla fine. Come è arrivato a concepire queste storie così bizzarramente distopiche?
Ognuno di questi racconti ha preso avvio da una voce.Quando ho scritto «Ghoul» avevo una vaga intenzione di tornare alla voce del mio primo libro, CivilWarLand in Bad Decline.Invece «Elliot Spencer» è nato da una domanda: «Come parlerebbe una persona se i suoi centri linguistici fossero stati sradicati e poi riprogrammati?». Quanto a «Liberation day», mi era preso il desiderio di scrivere in modo un po’ più selvaggio di quanto non avessi fatto in «L’audace mamma d’azione», e da questa ribellione a una voce che mi aveva stancato mi venne la voglia di provare qualcosa di opposto. All’inizio ho buttato giù un paio di pezzi di getto, poi ho dovuto chiedermi: «Chi potrebbe essere costretto a parlare così? E in quali condizioni dovrebbe essere?» Le mie storie sono spesso costruite a partire da un lungo lavoro di scoperta dell’azione e della trama, che continua in un radicale processo di revisione. Richiedono molto tempo, ma il primo passo sta sempre nella individuazione di una voce. Secondo la mia esperienza, scrivere in questo modo permette di raggiungere una verità e una consistenza non accessibili alla prima bozza dei miei pensieri. Per me, uno dei misteri dell’arte sta nel fatto che mentre si torna più e più volte su quanto si è scritto, e se ne corregge il tiro, entra in gioco una parte più profonda della mente. E questo mi dà la speranza di non essere, o quanto meno di non essere soltanto, la persona noiosa e prevedibile che sono nella «vita reale».
Per arrivare a analizzare i racconti degli altri, per esempio i russi sui quali ha raccolto le sue lezioni, si è basato sulla sua esperienza di lettore o sulla sua familiarità con testi critici?
La mia analisi dei testi altrui deriva soprattutto dall’insegnamento ai giovani scrittori. Sono sempre stato il tipo di lettore e di scrittore che vuole… sentire qualcosa: vedere la vita sulla pagina e farsi un’idea di cosa stiamo a fare su questa terra e come dovremmo comportarci.Perciò, comincio sempre col chiedere quale sia il punto del testo in cui lo studente ha avvertito qualcosa, per poi passare al perché. Forse c’è un pizzico di buddismo in tutto ciò: cominciamo a leggere e la mente è tranquilla, accettiamo completamente l’esperienza che si svolge sulla pagina, qualunque essa sia, senza commentare, semplicemente vivendola. Poi, a una seconda lettura, memori della prima, cominciamo a notare le nostre reazioni e a chiederci il perché: credo che ogni buona critica abbia inizio con una reazione spontanea, e che si risolva – in realtà – in un tentativo di capire e poi di articolare il motivo per cui ci si è sentiti come ci si è sentiti. Lo stesso accade nella scrittura, perché il processo di revisione comincia, ovviamente, con la lettura del proprio testo e con la reazione che esso suscita in se stessi.
Quel che distingue Jeremy – il protagonista del primo racconto – dagli altri due suoi compagni, chevivono accanto a lui «agganciati alla Parete Parlante», pronti a esibirsi «come bestie ammaestrate», è il suo livello di immedesimazione nei programmi che hanno concepito per lui. «È vero – dice – mi lascio trasportare dalle Impostazioni con maggiore ardore rispetto a loro. È sempre stato così. Be’, amo il mio mestiere». Eppure è più simpatico degli altri, e il Figlio Adulto della coppia, Mike, che non accetta l’assurdità della situazione, lei lo rappresenta invece come il più antipatico, di tutti.Ha concepito questi personaggi così fin dall’inizio, o hanno preso forma poco a poco?
A poco a poco, di sicuro.All’inizio di un racconto non so nemmeno chi ne sarà il protagonista.I personaggi compaiono sulla pagina di solito come risposta a qualcosa di cui la storia ha bisogno. Per esempio, per quanto riguarda Jeremy, a un certo punto l’ho immaginato sveglio, di notte, mentre si sente solo… dunque ho avuto bisogno di fare entrare nella stanza qualcuno… e ecco che arriva la signora U, moglie del programmatore. Dovrò farle fare qualcosa, se no – a una seconda lettura –la scena mi risulterà passiva e la taglierò, cosa che non voglio succeda. E quindi ecco che si mette a sedurre Jeremy. E così via. Altre volte, una frase mi sembra goffa o incompleta e, nel tentativo di darle vita aggiungo un’altra frase che … crea un personaggio.Sento che sto per introdurre un figlio e, mentre lo faccio, mi accorgo di avere digitato «Figlio Adulto Mike».Sembrerà banale, ma in realtà un personaggio è fatto solo di una sequenza di frasi, che riguardano tutte la stessa persona. Quindi, di solito digito un nome e vedo cosa succede: ovvero, cosa la storia richiederà a quel personaggio, in modo che si «guadagni la strada». Una gran parte del mio cosiddetto processo di scrittura consiste solo, e non so come sottolinearlo abbastanza, in un giocherellare con il testo, per divertimento, giorno dopo giorno. Ed è incredibile quanto un racconto possa cambiare via viae quante cose strane e profonde possa rivelare, che all’inizio non avevo affatto in mente.
Da quanto dice, lei sembrerebbe aderire al partito di Nabokov, che notoriamente concepisce i suoi personaggi come «schiavi ai remi», sotto il suo controllo assoluto. Anche se per altri versi, si direbbe chesposa la concezione più romantica, che vuole lo scrittore perdere il controllo e i suoi personaggi andare per strade tutte loro…
Nella mia esperienza, un personaggio mi dice quello che «vuole» fare attraverso una serie di passaggi che lo riguardano,e che mi sembrano ben riusciti. Se qualcosa si legge bene e suona convincente, vuol dire che è vero.A questo punto, si tratta di vedere cosa dovrebbe fare il personaggio in seguito. E qui divento più flessibile.Potrei anche pensare di sapere già come dovrebbe agire, ma se il mio tentativo di scrivere quella parte risulta piatto, allora vuol dire che il personaggio non voleva fare quel che gli ho detto di fare… Eppure, quello che sostiene Nabokov è vero anche per me: alla fine, l’intero libro deve corrispondere al mio volere, e quindisto sempre a tirare i personaggi di qua e di là, e a modellarli perché diventino come voglio io, ciò che in un certo qual modo corrisponde a come vogliono essere. Quindi: ho il «controllo assoluto» sui miei personaggi, sì, ma solo dopo averli ascoltati a fondo.
A volte il ritmo della narrazione cambia, c’è una sequenza di frasi molto brevi e di punti molto ravvicinati. È una strategia narrativa che mima dei flash mnestici, passaggi di immagini provenienti dai magazzini della memoria opensieri transitanti, insomma qualcosa che non ha a che fare con il ragionamento. Come ha messo a punto la sua scrittura?
Credo che tutto derivi dal mio processo di editing: cerco di spremere ciò che suona più ordinario, più abituale, da una determinata sequenza, il che tende a ridurla al minimo e a trasformarla in una sorta di stenografia.Ma poi, credo sia la forza del montaggio aprodurre l’effetto che lei descrive. Altre volte, cercando di mimare i pensieri succedono cose strane.Forse il mio è un obiettivo impossibile: mostrare il modo in cui funziona la mente, per produrre un testo che non risulti normale. Chissà. Credo intensamente nell’originalità come prima qualità della prosa.Non voglio assomigliare a nessun altro.Ma a volte, cercando di rappresentare fedelmente il processo del pensiero viene fuori qualcosa di davvero strano. Il linguaggio è uno strumento che facciamo funzionare perlopiù in contesti banali: per comprare oggetti, dare indicazioni, e così via. Ma nulla ci dice che sia adeguato a descrivere l’esperienza; anzi, sappiamo che non lo è. A mio avviso, la letteratura con la sua lingua sforzata ce lo ricorda, come avviene in un rituale. Un po’ come la caduta ci ricorda che la forza di gravità è un dato reale.
Ha mai avuto problemi con il suo editore? Molti scrittori ne hanno avuti, soprattutto in America, per rappresentazioni molto meno «scorrette» delle sue…
No, nessun problema, niente di niente.Credo che dipenda dal fatto che i miei personaggi, maschi e femmine, vecchi e giovani, sono come cartoni animati: lo dico senza alcuna connotazione negativa.Non do loro una rappresentazione tridimensionale, com’è quella dei personaggi letterari classici: sono qualcosa di diverso.Credo che l’etica di uno scrittore veramente non sessista/non razzista/non omofobico/non classista potrebbe suonare più o meno così: «Sì, ci sono forze esterne a tutti noi, che influenzano il modo in cui pensiamo e ciò che ci sentiamo liberi di fare, devo tenerlo a mente in nome della giustizia e del realismo; ma allo stesso tempo, devo inventare una mente che pensi, sebbene in modo singolare, come una mente umana».Alla fin fine, credo che se passerò abbastanza tempo a mettere a punto i miei personaggi e se li amerò davvero,tutto andrà bene: in fondo, siamo all’interno di un’approssimazione alla vita, di uno spettacolo.