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19 Dicembre 2025GEOGRAFIE Intervista all’italianista Tiziana Mattioli a proposito di «Kunstgewerbeschule per Giancarlo De Carlo», una mostra al Palazzo Passionei-Paciotti di Urbino
L’ultimo ad avere inteso Urbino come una vera e propria Polis fu un maestro dell’architettura, Giancarlo De Carlo (1919-2005), che fra gli anni cinquanta e settanta, su precisa committenza del rettore Calo Bo, ne integrò il profilo a partire dalla costruzione dei Collegi universitari che oggi fanno di Urbino un campus di straordinaria funzionalità e suggestione.
E ai Collegi si intitola infatti Kunstgewerbeschule per Giancarlo De Carlo, la mostra fotografica ospitata nella Fondazione Bo di Palazzo Passionei (catalogo Raffaelli editore, info: fondazionebo@uniurb.it) il cui allestimento si deve al rettore Giorgio Calcagnini e a Tiziana Mattioli con la collaborazione di Elena Baldoni e Antonella Negri. Al riguardo Tiziana Mattioli, italianista dell’Università urbinate, ha accettato di rispondere ad alcune domande.
Come è nato il progetto?
Nasce dalla sorpresa chiusa in tre grandi scatole che nessuno aveva mai aperto. Stavano nei magazzini della Fondazione Bo insieme ad altri materiali non ancora archiviati, perché la donazione libraria di De Carlo comprende non soltanto la sua biblioteca ma anche molti documenti, oltre mille schede archiviate, e fra questi un appunto che rinviava a Zurigo e mi ha subito incuriosita: si tratta dei fogli di una lezione tenuta da De Carlo a Zurigo dove nel novembre del ’66 venne allestita l’unica esposizione, che si sappia, delle foto che oggi presentiamo.

Studenti (Kunstgewerbeschule der Stadt Zürich, 1965)
Di che cosa si tratta, in realtà?
Man mano che costruiva i Collegi, De Carlo si è preoccupato di dare loro visibilità e risonanza internazionale. C’è una pubblicazione che li riguarda, del ’64 (e non dimentichiamo che il ’64 è l’anno in cui De Carlo consegna il Piano regolatore di Urbino, peraltro approvato dal Ministero competente solo dieci anni dopo…) dove compaiono foto di Cesare Colombo, scritti di Carlo Bo, Vittorio Sereni e di Egidio Massoli che allora era il sindaco comunista, un sindaco illuminato, della città. Ma già dal ’59 si parlava dei Collegi i cui lavori iniziano nel ’62 e si concludono nel giugno del ’65: stiamo parlando del loro primo blocco, il Collegio del Colle, nelle adiacenze della Chiesa dei Cappuccini, dove De Carlo interloquisce con una presenza storica nel paesaggio ma intanto si muove con assoluta autonomia. Nell’Archivio amministrativo dell’Università ci sono moltissime carte, progetti, disegni dove emerge con chiarezza, specie in una relazione che Bo scrisse per il Consiglio di amministrazione, che la prima idea dei Collegi, la scelta del luogo, era stata addirittura di costruirli alle Vigne, di fronte a Palazzo Ducale, ma lo aveva impedito la proprietà ecclesiastica.
Alcune foto erano già state scattate durante i lavori, quelle appunto di Colombo o di Giorgio Casali, per essere presentate ai convegni o ad uso interno ma questo blocco riemerso di fotografie (trovate fra i libri di De Carlo e non ancora inventariate perché le scatole stesse sembravano dei libri) ha davvero qualcosa di straordinario: sono in tutto 146, formato 30×30, foto in bianco e nero e gelatina d’argento, e risalgono alla fine dei lavori. Dunque per chiarire l’origine delle foto e seguendo l’appunto di De Carlo abbiamo scritto a Zurigo, a quella che adesso è l’Università delle Arti e allora era la Kunstgewerbeschule e comprendeva un corso di fotografia molto qualificato dove studiò fra gli altri, tra il ’62 e il ’65, Oliviero Toscani diplomatosi con lo stesso professore che avrebbe accompagnato qui a Urbino un gruppo di studenti dal 14 al 24 settembre del ’65 quando, si può dire, nessuno aveva ancora visitato i Collegi.
Quali sono i criteri del vostro attuale allestimento in Palazzo Passionei?
Si tratta di una mostra complessa innanzitutto perché le foto vanno rispettate nella loro entità materiale, delicatissima in quanto hanno dormito per sessant’anni in quegli astucci di legno: oltretutto godono di una tecnica di stampa estremamente raffinata e potrebbero rischiare di sciuparsi. Si è cercato un allestimento semplice, rispettoso della filologia e capace di proteggere questi documenti molto particolari. Ci si può chiedere perché De Carlo si fosse allora rivolto a Zurigo per documentare il proprio lavoro e perché avesse voluto degli studenti come testimoni. Direi che ha voluto mettere alla prova la sua architettura con dei simili, gli studenti, a coloro che l’avrebbero poi abitata: se non ha scelto gli studenti di qui, che pure lo avevano aiutato a preparare il Piano regolatore, è perché altri di Zurigo gli garantivano uno sguardo puro, vergine, insomma lo sguardo di chi si trovasse all’improvviso di fronte a una nuova città, una Città dell’Utopia.
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«NELLE CITTÀ DEL MONDO». Da Barcellona e Berkeley a New Delhi e Kiev, stazioni esistenziali di un militante

Kunstgewerbeschule per Giancarlo De Carlo
È stato detto, con più di un fondamento, che il rapporto fra l’architetto Giancarlo De Carlo e il Magnifico Rettore a vita dell’Università di Urbino, Carlo Bo, replicava a distanza di secoli quello intercorso, agli albori dell’Umanesimo, tra Francesco di Giorgio Martini e il duca Federico da Montefeltro. Non è dunque un caso che De Carlo, accettando settantenne la cittadinanza onoraria del suo luogo elettivo, dove aveva lasciato tanta impronta di sé e firmato un Piano regolatore rivoluzionario, si augurasse paradossalmente di poter condividere un giorno un simile premio con quel grande maestro e chiedendosi, per l’occasione, «se per celebrare con la architettura sia meglio dilatare le dimensioni oppure demistificare i significati come lui stesso ha fatto, con grande successo, lavorando in scala più piccola, un poco più avanti, nello studiolo dei Torricini».
Il passo è tratto dalla Piccola autobiografia in pubblico a Urbino, discorso in clausola al bellissimo libro che nel ‘95 De Carlo volle intitolare Nelle città del mondo e ora torna (pp. 295, euro 22) con un saggio di Federico Bilò e una nota di Manuel Orazi, edito da Quodlibet nella organica riproposizione delle opere di un maestro che fu anche uno scrittore dallo stile sobrio ed essenziale.
GIÀ IL TITOLO evoca il crocevia intellettuale di un architetto che fin dal dopoguerra si situò nel fuoco di una militanza che nulla aveva di retorico o di freddamente programmatico ma era sostenuta, viceversa, sia dagli stimoli della tradizione sia dagli estri di una fiammante inventiva. Perché la modernità di De Carlo sta nel paradosso di riuscire classico senza pagare pegno al classicismo e quelle sue «città», va pure aggiunto, si situano fra le «invisibili» dell’amico Italo Calvino e le altre mille sognate da un suo sodale come Elio Vittorini che, spentosi nel ’66, lasciò inconcluso un romanzo picaresco dal titolo molto eloquente, Le città del mondo. E le città di De Carlo, nel percorso attestato nel suo libro più autobiografico, da Barcellona e Berkeley a New Delhi e Los Angeles, da Siena e Istanbul a Kiev, sono stazioni esistenziali di qualcuno che continuava a dirsi, tuttavia, affetto dalla sindrome dell’apolide: ma era un modo, questo, di rigettare qualunque vincolo metafisico o ipoteca identitaria.
NEL DISCORSO DI URBINO, pronunciato a braccio, Giancarlo De Carlo aveva infatti confessato che le attitudini elettive di un architetto non potevano che essere, guardando alle città del mondo, «comprendere e trasformare». (Ma. Ra.)





