Il Punto 05/05/2023
6 Maggio 2023Ppe a congresso diviso sull’alleanza con Meloni No all’intesa con Salvini
6 Maggio 2023
di Francesco Verderami
In due ore di accesa discussione sulle nomine Giorgia Meloni ha avuto il tempo di farsi prendere dal nervosismo e di farselo passare.
E per due ore i ministri hanno atteso nel salone del Consiglio, consapevoli che qualcosa stava andando storto. Finché, per rompere quel silenzio imbarazzato, Raffaele Fitto si è rivolto ai colleghi: «Facciamo una seduta spiritica?». Sarebbe stata utile per invocare gli spiriti dei gabinetti precedenti e farsi raccontare le loro storie. Tutti avevano vissuto la stessa situazione, quando si era trattato di affrontare il nodo delle nomine. Ma a nessuno era capitato che l’esecutivo venisse convocato senza che quei nodi fossero stati anzitempo sciolti.
Perciò l’altroieri la premier era adirata, perché il passo falso è figlio di un gioco di potere interno al centrodestra che stropiccia la sua immagine e quella impostazione presidenzialista da affermare con le riforme istituzionali. È vero, a Palazzo Chigi si è proceduto con il commissariamento dei vertici di Inps e Inail ed è stato sbloccato l’iter per il rinnovo della Rai. Ma il braccio di ferro sul futuro comandante della Guardia di finanza e sul capo della Polizia ha gettato un’ombra sulla gestione dei dossier di governo e offerto uno spaccato dei rapporti in seno all’esecutivo.
Un grand commis, osservando quanto è accaduto, ha solidarizzato con Meloni: «Le hanno fatto finire il Consiglio dei ministri in consiglio comunale». Il riferimento è proprio legato alla mano di risiko che coinvolge ministri, alleati e persino compagni di partito: un’operazione condotta sul filo delle procedure. Perché è impensabile che solo all’ultimo momento nel governo si siano accorti della «mancanza di urgenza» per la sostituzione di Giuseppe Zafarana ai vertici delle Fiamme gialle: in effetti il generale — indicato alla presidenza dell’Eni — per assumere il nuovo incarico dovrà attendere l’assemblea del colosso energetico, prevista per il 10 maggio. Ma è chiaro che la discussione sulla tempistica cela contrasti sul nome del sostituto, tra i quali c’è Andrea De Gennaro, sostenuto dal sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano d’intesa con Meloni.
Così è iniziato il derby in Fratelli d’Italia, con Guido Crosetto che ha reclamato le sue prerogative: «Per legge — ha contestato il titolare della Difesa — ho il concerto sulla nomina. Siccome non c’è urgenza, salviamo forma e sostanza e fatemi fare ciò che devo». «Vorrà dire che Giorgia nominerà De Gennaro dopo il 10 maggio», sussurra un altro ministro di FdI: «Certo, le potevano evitare la brutta figura». Raccontano che in Consiglio la premier non riesca più a nascondere il proprio stato d’animo per il protagonismo di alcuni esponenti dell’esecutivo, compresi alcuni fedelissimi.
Anche l’iniziale afflato con Giancarlo Giorgetti pare sia scemato. L’altro ieri il responsabile dell’Economia ha lasciato che fosse Crosetto a mettere una zeppa sulla Guardia di finanza, «ditemi se devo firmare e andiamo avanti». Ma il vero momento di attrito con Meloni si è registrato durante il Consiglio del primo maggio, quando — a sorpresa — Giorgetti ha spiegato alla premier che bisognava ridurre di un punto il taglio al cuneo fiscale appena annunciato ai sindacati: «Mi spiace ma non c’è copertura sufficiente». E lei, che non voleva perdere la faccia, ha lanciato uno sguardo di fuoco verso Fitto. Con toni democristiani, il ministro di FdI ha spiegato al collega dove recuperare i fondi necessari, prima di rincorrerlo nel salone e rassicurarlo.
Dicono che Giorgetti stia vivendo uno dei suoi momenti amletici: «Sono qui ma vorrei essere lontano da qua». Non è chiaro se dipenda dalla pressione delle strutture dell’Economia o dalla tenaglia quotidiana a cui è sottoposto da Meloni e Matteo Salvini. Sta di fatto che la giostra delle nomine è rivelatrice dello stato di salute di una coalizione e di un governo. E riserva sempre colpi di scena. Per esempio l’asse tra il segretario della Lega e Gianni Letta: fino a poco tempo fa erano come il diavolo e l’acqua santa, ora dopo aver firmato l’avvento di Paolo Scaroni all’Enel si muovono d’intesa per il nuovo capo della Polizia. In realtà, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi avrebbe voluto tenere ancora per un anno al Viminale Lamberto Giannini prima di indicarlo per un incarico ai Servizi.
Ma la giostra gira. E girerà vorticosamente con gli incarichi in Rai, dove Meloni è combattuta tra il desiderio di piazzare «un altro colpo alla Cingolani» e la necessità di assecondare le richieste di quanti le sono stati al fianco per anni. In un caso come nell’altro, ha dovuto prima varare la norma «salva Fuortes» che per lasciare Viale Mazzini voleva la poltrona del San Carlo a Napoli. Un’uscita di scena molto teatrale. Anche troppo.