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di stefano montefiori
«Ho scritto questo libro per permettere a mia madre, e alle migliaia di persone anziane nelle sue condizioni, di dire noi», dice Didier Eribon a colloquio con «la Lettura». Sociologo e filosofo settantenne, autore di quel Ritorno a Reims che è un’opera fondamentale della letteratura francese contemporanea, mentore di Edouard Louis e ispiratore di altri «transfughi di classe» di grande talento, Eribon pubblica in Italia, per L’Orma, Vita, vecchiaia e morte di una donna del popolo. Una storia personale e intima della madre morta in casa di riposo, e un atto politico.
Quando ha sentito di volere scrivere della morte di sua madre?
«Nel 2018, prima del Covid e un anno dopo la sua morte. La pandemia, con le migliaia di anziani scomparsi nelle case di riposo, è arrivata come una lente di ingrandimento su un fenomeno che esisteva già. Ho ripensato ai messaggi che mia madre mi lasciava nella segreteria telefonica, di notte: “Sono infelice qui, mi maltrattano, non mi permettono di fare la doccia, nessuno viene a chiudere la finestra quando ho freddo, suono e nessuno risponde”. Ho chiamato la responsabile, persona animata dalle migliori intenzioni, che mi ha spiegato come stavano le cose: quella casa di riposo, come tutte le strutture pubbliche, non aveva abbastanza fondi, quindi non aveva abbastanza personale, quindi mia madre poteva fare la doccia una volta alla settimana perché mancavano i due inservienti indispensabili per farla alzare».
In questo modo la vicenda personale ha assunto una dimensione politica?
«Sì, quei messaggi angoscianti nella segreteria telefonica erano eminentemente politici. Ma avevano un solo destinatario: me. Un messaggio politico ma destinato a restare nella sfera famigliare, privata. Così ho deciso di scrivere il libro per dare a lei, e alle migliaia di persone come lei, una voce politica, pubblica».
Gli anziani, specialmente i non autosufficienti, sono la categoria più dimenticata?
«Certo, perché non hanno alcun modo per manifestare pubblicamente contro la loro condizione. Quasi tutti gli oppressi possono almeno fare sentire la loro voce, i disoccupati possono scendere in piazza, come le femministe, i migranti. Gli anziani no. Sono rinchiusi nelle case di riposo e dimenticati dalla sfera pubblica. Io milito a sinistra, vado nelle manifestazioni. Nei cortei bisognerebbe sempre domandarsi chi manca, e perché».
Il suo libro è in parte la biografia di sua madre. Parla dei suoi gusti, delle canzoni che amava, dell’ammirazione per Alain Delon… È un modo anche per dare un corpo alla militanza politica?
«Ho voluto fare un ritratto di mia madre come una sorta di addio, un’immagine temperata dal fatto che parlo, per esempio, del suo razzismo. Ho cercato di raccontare come la sua singolarità fosse radicata nell’appartenenza alla classe operaia. Tutta la mia famiglia votava per il Partito comunista. Mia padre era operaio, mia madre operaia e donna delle pulizie, votava comunista ed era sempre in prima linea nei cortei indetti dal sindacato vicino ai comunisti, la Cgt. Poi, quand’è stata mandata in pensione anticipata, si è ritrovata a casa, sola, vittima della propaganda della tv che guardava tutto il giorno. E, come molti nella mia famiglia, ha cominciato a votare per il Front National. Quando l’ho raccontato in Ritorno a Reims molti non volevano crederci. Poi il voto operaio per l’estrema destra è diventato un fatto accertato e noto a tutti».
Quale rapporto aveva con sua madre? La amava?
«Non direi amore… Sono stato lontano dalla mia famiglia per trent’anni. Che cosa mi ha spinto a tornare indietro? Quando mia madre ha iniziato a subire un declino fisico e cognitivo, ho voluto prendermi cura di lei. Non era amore, non era tenerezza; era compassione, certo, verso una donna anziana il cui corpo era stato distrutto da anni di lavoro in fabbrica. Ma soprattutto era un sentimento di gratitudine, perché mi dicevo: se il suo corpo è distrutto perché ha lavorato in fabbrica 15 anni, è perché io potessi andare a scuola e poi all’università, ad ascoltare lezioni su Cartesio o Kant. Sapendo bene che in questo modo sarei diventato diverso e mi sarei allontanato da lei, com’è stato. Scrivere su di lei, provare a darle una voce, è stato anche un modo per sdebitarmi».
E placare forse un senso di colpa?
«Il senso di colpa esiste, e su questo fa leva il sistema. Ma è un trucco per rigettare sui singoli responsabilità che sono del sistema, del governo. Rifiuto questo senso di colpa. Siete voi che comandate, voi che avete i soldi, voi che gestite le case di riposo pubbliche e tagliate di continuo i fondi. Se mia madre non poteva farsi la doccia non è colpa mia ma vostra. Io non avrei potuto tenerla con me in una casa di 50 metri quadrati al terzo piano senza ascensore, senz’assistenza medica».
E in una casa di cura privata forse non sarebbe stata meglio.
«No, come ha poi dimostrato il libro Les fossoyeurs di Victor Castanet. In quell’inchiesta si racconta come anche in case di riposo da 10-12 mila euro al mese, inavvicinabili per le persone comuni, la logica del profitto porti a risparmiare sulle fette biscottate, da due a una a colazione, o sui pannoloni, solo uno al giorno».
Il suo libro è anche un affascinante percorso su come la letteratura ha affrontato il tema delle persone anziane. Con una menzione speciale per Simone de Beauvoir e il suo saggio «La terza età» (Einaudi).
«Un libro bellissimo, scritto nel 1970, e largamente sconosciuto, anche da persone esperte di Beauvoir, che citano a memoria non solo Il secondo sesso (il Saggiatore, ndr) ma anche certe sue lettere o scritti secondari. Ma esiste un movimento femminista, e non esiste un movimento degli anziani. E poi c’è il libro straordinario di Annie Ernaux, Una donna (L’Orma), uno dei suoi più belli».
Lei si dice convinto che sua madre si sia lasciata morire.
«Un suicidio lento ma consapevole. Se n’è andata in sette settimane, perché non poteva più proiettarsi nel tempo e nello spazio, non poteva fare progetti, ciò che secondo la filosofia sartriana dà significato all’esistenza umana».
Che cosa si può fare?
«Arrestare lo smantellamento dei servizi pubblici. In questo senso la morte di mia madre ha un valore politico, di denuncia. Urbanisti e architetti stanno pensando ad alternative alle case di riposo, per esempio residenze per studenti accanto a case per anziani, i giovani potrebbero andare a fare visita agli anziani, sempre meglio che fare i fattorini sfruttati dalle piattaforme digitali. Le soluzioni esistono, a patto che lo Stato accetti di stanziare risorse per gli invisibili».
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