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Il Mulino ripropone una raccolta di brevi saggi di Carlo M. Cipolla, Tre storie extra vaganti (pagine 128, euro 12,00), pubblicato per la prima volta nell’ormai lontano 1994. Cipolla (1922-2000) ha insegnato alla University of California, Berkeley, e in vari atenei italiani (Venezia, Torino, Pavia, Scuola Normale di Pisa, Istituto Universitario Europeo) e con i suoi saggi di impronta più divulgativa è riuscito ad appassionare alla storia economica anche i non specialisti. Fra i suoi scritti di maggior successo c’è poi il bestseller Allegro ma non troppo, trattatello ironico in cui vengono passate in rassegna, tra le altre cose, le cinque leggi fondamentali della stupidità umana. Le Tre storie extra vaganti, strane e curiose, sono tre vicende vere che portano il lettore prima nel Trecento e poi tra Sei e Settecento, sulle orme di banchieri e commercianti.
La prima storia, “Uomini duri”, è ambientata a Firenze e ha come protagonisti i Bardi, celebre famiglia di banchieri, nel momento in cui le sorti della loro Compagnia furono precipitate in una grave crisi per l’insolvenza di un debitore d’eccezione, il re d’Inghilterra Edoardo III. È un tempo in cui gli esponenti di spicco della famiglia hanno i nomi poco raccomandabili di Sozzo, Aghinolfo e Rubecchio. Sono uomini determinati e pronti a tutto, persino alla falsificazione di monete, pur di risollevare la Compagnia da una situazione ormai divenuta insostenibile. Nella seconda storia, “La truffa del secolo (XVII)”, si racconta invece di una truffa perpetrata ai danni dei Turchi a metà Seicento, quando si era diffusa la moda di collezionare luigini d’argento, usati dalle donne turche benestanti persino per adornare vesti e farsene gioielli. Gli speculatori europei sfruttarono questo insolito vezzo e le scarse conoscenze tecniche degli acquirenti per immettere nel mercato turco un’ingente quantità di monete contraffatte e dallo scarso valore intrinseco. La truffa ebbe esiti inaspettati
tanto sull’economia mediterranea quanto sulle coscienze di alcuni, che arrivarono persino a consultare commissioni di teologi per stabilire se ci fosse effettivamente colpa nell’inganno. Il terzo scritto, “I Savary e l’Europa”, commenta invece due trattati francesi pubblicati tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento, in cui Jacques Savary e suo figlio propongono ritratti e giudizi, basati su esperienze di viaggio e attività commerciali, sulle principali nazioni europee. Nel leggerli si ha l’impressione che si tratti di stereotipi – peraltro duri a morire – più che giudizi fondati, eppure furono idee capaci di dar forma a un immaginario ed esercitare un’influenza duratura.
La freschezza di queste pagine non ha sofferto affatto lo scorrere del tempo. Merito di tematiche sempre attuali, ma anche di uno stile che unisce erudizione, commenti arguti e una leggerezza mai superficiale, per mostrare che dietro cifre, cambiali, truffe e strategie economiche più o meno vincenti c’è sempre e soprattutto l’uomo, con le sue intuizioni e le sue ambizioni, tra meschinità e ingegno.
Questa edizione si arricchisce poi anche di una “favola medievale”, intitolata “Il linguaggio degli occhi”. Un racconto di fantasia, ben ancorato però a una cornice storica. Siamo all’alba del Medioevo, alla fine di quel VI secolo che vide la discesa in Italia dei Longobardi. I protagonisti della storia sono infatti Placidia, aristocratica che discende da un’antica famiglia romana, e Gisulfo, che proviene da una famiglia longobarda. Il loro è l’incontro fra due mondi diversi che dovranno imparare a coesistere. Anche in questo caso l’attualità della tematica è evidente. Placidia è stata educata alla raffinata corte di Ravenna ed è l’opposto di Gisulfo, che, pur apprezzando la romanità, rimane essenzialmente un guerriero «con gusti e preferenze ancora germanici». La vicenda ruota intorno alla difficile ricerca di un possibile terreno comune, all’attesa di un cambiamento che possa realmente avvicinarli, consolidando – dopo il classico colpo di fulmine iniziale – un’unione osteggiata dai loro cari. Le suggestioni letterarie sottese a questo racconto sono evidenti e persino dichiarate, seppure in modo sottile. La “favola”, infatti, deve molto alla storia del guerriero Droctulfo, che ci è tramandata da varie fonti, tra cui l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, ed è ripresa anche in un celebre racconto di Borges: portato dalle guerre a Ravenna, Droctulfo decide di diventarne il più strenuo difensore, rinnegando i suoi e persino morendo per salvarla. Nella versione di Borges, il guerriero si sarebbe “convertito” dopo aver contemplato la bellezza della città, che elesse a sua patria.
Culture e religioni diverse, dunque, fra conflitti e aperture. Per conciliare le tante identità e tradizioni che si affacciarono al Medioevo europeo ci vollero secoli. Per Placidia e Gisulfo, invece, gli eventi prenderanno una piega improvvisa e inaspettata, fino a giungere a una conclusione rassicurante e profonda in cui la loro unione, dopo aver attraversato un grande dolore, sembra trovare finalmente un senso.





