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Un’immagine che rende più di altre la triste vigilia americana è contenuta nel video della Homeland Defense: Babbo Natale in uniforme Ice ammanetta immigrati e li carica sui voli di deportazione. Il presidente/sovrano imperversa in una Washington indecisa fra non prenderlo sul serio e preoccuparsi per una deriva che sconfina nella megalomania.
Negli ultimi giorni il presidentissimo è passato da un discorso alla nazione sotto forma di filippica irritata ad una cittadinanza non abbastanza riconoscente per i suoi trionfi, alla presentazione della nuova classe di «corazzate Trump», le navi «più splendide e letali di sempre», che saranno il cuore della «flotta dorata» destinata a portare la bandiera (quella con la T, presumibilmente) sui sette mari. La geopolitica della superpotenza occidentale come un film della Marvel.
Gli Stati uniti, d’altronde, sembrano sempre più identificati con la sua persona. Da canto suo Trump, circondato dalla corte di ciambellani, sembra considerarsi sempre più un sovrano del mondo.
Nell’ennesimo bizzarro video ha raccontato di aver ottenuto che «tutti i paesi europei» raddoppiassero i prezzi dei farmaci per sostenere una parte più equa degli utili di Big Pharma e consentire un conseguente drastica riduzione dei prezzi in Usa. La nozione già singolare è stata spiegata dal presidente con un siparietto a base di imitazioni di un Macron in versione imbelle cicisbeo continentale, succube timoroso dei perentori ordini di «Trump» (ogni riferimento a se stesso è sempre in rigorosa terza persona).
La fatale combinazione di una personalità patologicamente narcisa e l’immunità plenaria e preventiva concessagli dalla Corte suprema, sembrano aver cementato nel presidente la ferma convinzione di poter governare per decreti e proclami. Alla soglia del 250mo anniversario della fondazione, mai come ora la repubblica sembra somigliare alla monarchia in contrapposizione alla quale è nata. In mancanza di apparenti strumenti di effettiva opposizione politica, il paese sembra paralizzato in modalità limitazione dei danni.
Il presidente che spesso si addormenta in riunioni di gabinetto, sembra disinteressarsi di negoziazioni complicate che non si prestino a rapidi annunci di vittorie, il lavoro quotidiano di una vera governance. Sembra di contro davvero illuminarsi nella preparazione di cerimoniali. Quelli per il 250 anniversario ad esempio. Al momento il programma comprende una serie di combattimenti di arti marziali miste alla Casa bianca trasformata in scenografia da Wwe, ed i Patriot Games: due atleti liceali da ognuno dei 50 stati invitati a competer nella capitale (forse la Lionsgate, produttrice della franchise cinematografica Hunger Games, dovrebbe chieder i diritti d’autore). A proposito di studios di Hollywood anche loro rientrano negli interessi privilegiati di un presidente che si considera operatore di settore. Sarà lui l’autoproclamato arbitro del destino della Warner Bros, contesa da Netflix e dalla Paramount dell’amico Larry Ellison – il magnate maga di Silicon Valley che sarà anche nuovo patron di Tik Tok.
Un panorama mediatico che, dopo quello universitario, della scienza e della salute pubblica, è in procinto di essere soggiogato con una rapidità che pochi avrebbero sospettato, con l’assist fondamentale degli alleati di Silicon Valley. Caso paradigmatico, la Cbs, blasonato alfiere di telegiornalismo americano, messa in mano ad una influencer Maga per censurare contenuti «sconvenienti». Ma il servizio sul campo di concentramento salvadoregno contrattato per rinchiudere i deportati, viene ora visionato in streaming pirata dal Canada come un «american samizdat».
A proposito di oggetti che rimandano alla propaganda caucasica più che al soft power americano, è atteso per il 30 gennaio il documentario «intimo» su Melania Trump, diretto da Brett Ratner (regista in orbita Epstein). Un omaggio della Amazon che oltre alle spese di produzione si è accollata un «onorario» di 40 milioni di dollari versati direttamente alla First Lady. Una corruzione dinastica che contribuisce alla dissonanza cognitiva nazionale.
Il «documentario» verrà presentato al Kennedy Center, ribattezzato di fresco anche lui in onore al caro leader, che proprio ieri sera si è improvvisato presentatore del Kennedy Honors la cerimonia televisiva che ogni anni premia gli artisti più insigni della nazione. Quest’anno è toccato ad una brigata di amici di Trump (Kiss, Stallone, George Strait, Gloria Gaynor), ma la star designata era una sola. «Sappiatemi dire se vi sono piaciuto» ha scritto poi il presidente con la crudeltà di Tantalo. «Nel caso lascio la carica e torno in Tv a tempo pieno».
Ultima pillola di una presidenza che mescola in modo difficilmente decifrabile il grottesco ed il terribilmente serio. Il proconsole inviato in Groenlandia a preparare l’annessione, con l’enorme armata navale che assedia il Venezuela e le esecuzioni extralegali di natanti nel Golfo e nel Pacifico. Un macabro spettacolo amplificato sui social come narrazione di un conflitto insensato quanto mortale.
Dietro a questo assurdo teatro si delinea una proiezione sul mondo di caotica instabilità e la sensazione di un’accelerazione sul programma ideologico da parte degli estremisti che dietro al presidente tengono le fila di questo regime americano. Una nazione non solo post democratica ma orfana di politica. Non vi è più traccia, infatti, di una dinamica degna di questo nome. Mentre i sondaggi dicono di una maggioranza delusa e preoccupata, il paese è come prigioniero di un governo ostile, aggrappato alla speranza delle elezioni parlamentari di un novembre che sembra dannatamente lontano.





