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Non c’è più la globalizzazione di una volta. Gli economisti prendono atto che il processo di progressivo abbattimento delle barriere doganali che ha caratterizzato gli ultimi tre decenni è terminato. «Soprattutto – sintetizza Paul Krugman, premio Nobel dell’Economia nel 2008 – è entrato in crisi il sottotesto che ha accompagnato la prima globalizzazione, l’idea che l’abbattimento progressivo delle barriere che impedivano la libera circolazione delle merci avrebbe finito per favorire gli scambi anche culturali e, in definitiva, avrebbe portato la pace. La guerra in Ucraina ha fatto cadere quell’illusione».
Krugman parla alla grande sala delle Ogr di Torino, uno dei templi dell’architettura industriale del Novecento, a conclusione del Festival internazionale dell’Economia. Un dibattito coordinato da Tito Boeri cui partecipano anche gli economisti Richard Baldwin, Kalina Manova e Anthony Venables. Una sorta di punto finale di una kermesse che ha riunito a Torino il meglio degli economisti di fama mondiale sul tema centrale di questi anni: come ripensare la globalizzazione.
Perché è chiaro che la globalizzazione ha conosciuto una battuta d’arresto, prima con il Covid e poi con la guerra di Putin. «Dobbiamo prendere atto che il mondo non è più quello del 2005», dice Krugman. E spiega: «Dobbiamo cambiare il nostro approccio alla globalizzazione. I cambiamenti degli ultimi anni hanno scosso il sistema dalle fondamenta. Sarebbe stato fantastico poter continuare a illudersi che le teorie economiche avrebbero sconfitto la guerra. È bastata la vicenda in Ucraina per scoprire quanto l’Europa fosse energeticamente dipendente dalla Russia. Uno dei risvolti negativi della globalizzazione è che l’estrema interdipendenza può mettere in discussione la nostra sicurezza. Ora siamo tutti preoccupati dalla possibilità che quella interdipendenza, che ci pareva un fatto positivo, possa essere strumentalizzata da qualcuno a nostro danno, per riscattarci».
La debolezza dell’Occidente globalizzato di fronte a quei ricatti può fermare l’interconnessione dei commerci o quella che conosciamo oggi è solo la battuta di arresto di un processo comunque inarrestabile? L’economista americana di origine bulgara Kalina Manova sembra propendere per la seconda ipotesi: «Le interconnessioni del commercio mondiale sono molto diffuse. A questo va aggiunta la considerazione che i due terzi degli scambi avvengono all’interno delle reti della grandi multinazionali. Certo in questi anni, di fronte ad avvenimenti che hanno segnato un cambio epocale, le catene della fornitura hanno mostrato la loro fragilità. Ma alla fine le interconnessioni sopravviveranno». E, sostiene Kalina, finiranno per migliorare il mondo: «Proprio grazie allo scambio delle merci le aziende recepiranno, ad esempio, una maggiore sensibilità alle questioni del cambio climatico è al rispetto dell’equilibrio dell’ambiente». Eccessivamente ottimista? «Pensate – ribatte Kalina – a quanto apparisse strana, quindici anni fa, l’idea che la responsabilità sociale potesse essere una della voci dei bilanci delle imprese. Oggi, al contrario, è un fatto accettato da tutti».
Come sarà dunque la nuova globalizzazione? Dovrà sposarsi con le politiche protezioniste, quasi un paradosso giustificato con ragioni di sicurezza nazionale. Il caso all’ordine del giorno è quello dell’Ira, il provvedimento dell’amministrazione Biden che si propone di ricostruire un perimetro nazionale degli investimenti nell’economia americana. Quello stesso Inflation reduction act (Ira) che sta suscitando le preoccupazioni delle aziende europee per il rischio che attiri gli investimenti oltreoceano: «Io giudico positivamente il provvedimento – dice l’economista britannico Anthony Venables – perché ha come effetto, anche, la riduzione dell’inquinamento e il miglioramento del clima. Rappresenta un graffio ai principi del libero scambio? Può darsi ma quello dell’ambiente è un tema molto importante». Il problema è che con la scusa di ridurre gli scambi e il loro impatto sull’ambiente Biden finisce per privilegiare le aziende Usa a scapito delle altre: «È vero – ammette Krugman – che la scelta è di impronta protezionista. Ma senza decisioni nazionaliste la politica non è più in grado di investire». Quindi, pare di capire dalle tesi del premio Nobel, la nuova globalizzazione sarà una sorta di animale a due teste, globale e nazionale al tempo stesso. Su tutto aleggia lo spettro di un nuovo schok, quello dell’intelligenza artificiale: «Ci dobbiamo attrezzare a un nuovo cambiamento – aggiunge Richard Baldwin, docente a Ginevra – perché l’intelligenza artificiale sostituirà lavoro intellettuale e aiuterà i lavoratori manuali che finora avevano pagato il prezzo più alto al cambiamento tecnologico». La globalizzazione nell’era dell’intelligenza artificiale cambierà ancora lo scenario: «Tra dieci anni – prevede Krugman tra il serio e il faceto – il Festival di Torino potrebbe svolgersi senza relatori, solo con interventi preparati dall’intelligenza artificiale». Ieri comunque il primo passo: Krugman interveniva su uno schermo parlando dalla sua biblioteca. Al termine, tutti gli organizzatori della kermesse sul palco per l’arrivederci all’edizione 2024.