Qual è dunque la ragione di questo libro?
L’amicizia non è politica. Tuttavia la arricchisce e la rende più umana. Gli amici si “attraversano” reciprocamente e lasciano l’uno all’altro brandelli dell’anima. Fondano un’autentica relazione, si scambiano la parola, esercitano l’empatia. Dimensioni sempre più rare, dove tutto spinge alla frammentazione, all’individualismo e all’ipertrofia dell’io. Nella velocità di questi processi, la sinistra è spaesata e le vite sono randagie. Il libro è un invito a reagire, sul piano culturale e ideale. Contro la mercificazione di ogni espressione vitale immagina spazi di libertà dello spirito.
Ma ha nostalgia?
Forse. Nostalgia di un tessuto antropologico che, almeno in parte, ancorava l’esistenza alla speranza, al futuro, alla gratuità, alla fraternità, alla mobilitazione dell’animo, alla cultura e al silenzio della contemplazione e dello studio. Se è nostalgia, lo è in senso attivo. Per tentare e ancora tentare di ribaltare l’attuale condizione umana.
Tra i tanti personaggi un posto speciale lo occupa Pasolini a cui sembra vincolarla un legame non solo politico, ma umano.
Negli ultimi due anni della sua vita, dal ’73 al ’75, Pasolini divenne amico dei giovani comunisti romani. Si incuriosì e poi esaltò la nostra diversità. Non eravamo i rivoltosi figli della borghesia che il poeta non amava, né la nuova generazione consumista, uniformata alle mode e anche corporeamente “seriale”, priva di spontaneità e innocenza. Il legame fu così intenso che prima della scomparsa, mi disse sull’uscio della porta nella sua casa all’Eur: “Vi ho dedicato il mio ultimo film Salò. Un film terribile. Probabilmente non vi piacerà. Eppure contiene una scena di eroica opposizione di un ragazzo rispetto all’inferno nel quale sia i carnefici che le vittime sono precipitati. La dovete indovinare, perché non ve la dico adesso”. E come se la indovinammo: è quella nella quale un ragazzo colto dai militare repubblichini mentre fa l’amore con una giovane bellissima donna di colore, si erge con fierezza nudo e con il pugno chiuso esponendosi alle pallottole degli assassini. Due mesi dopo Pasolini perse la vita nella landa desolata dell’idroscalo di Ostia e noi rimanemmo orfani.
Sul fronte opposto c’è invece Andrea Augello, dirigente della destra e morto prematuramente lo scorso anno: sulla base della sua amicizia con lui che giudizio ha su Giorgia Meloni?
Il mio rapporto con Augello nasce nello scontro politico. Eravamo avversari. Eppure leali, curiosi delle rispettive culture ed entrambi scontenti di alcuni aspetti della modernità dell’occidente. Ci univano alcuni autori del primo 900. Gramsci, Jünger, Ezra Pound. Così penetranti nell’anticipare e cogliere la crisi di tutta un’epoca. Per quanto riguarda la Meloni, è sotto gli occhi di tutti il fallimento del suo governo. Molto diviso e alla fine stretto tra una fiscalità che non incide sulle fasce alte della ricchezza e qualche mancia corporativa che malamente nasconde un attacco micidiale non solo alle libertà ma anche allo stato sociale che i lavoratori hanno conquistato in decenni di lotte. Soprattutto nella sanità la condizione è d’emergenza. Per le cure si aspettano mesi e la gente muore, se non ha i soldi per rivolgersi al privato. E poi, politicamente, la Meloni oggi non è né carne né pesce. Oscilla tra le “eresie” di Atreju e l’atlantismo più ottuso o la imbolsita banalità di Vannacci.
C’è un passaggio che sembra averla segnata a fondo, la trasformazione del Pci in Pds. Rompe con Ingrao, si ammala, è marginalizzata: è stata giusta davvero quella scelta?
La svolta per certi aspetti era inevitabile. Le modalità, tuttavia, furono segnate dalla fretta e da un’insufficiente attenzione a un popolo che nella parola comunista non intendeva ormai l’Urss, bensì un soggetto politico democratico fondante la democrazia e in lotta per la giustizia sociale. Personalmente, non la vissi come un gioioso atto creativo, piuttosto come una dolorosa necessità. In verità nelle intenzioni di Occhetto c’era lo sblocco del sistema politico italiano e allo stesso tempo l’elaborazione di un nuovo pensiero critico. Alla fine prevalse nel tempo solo il primo aspetto e sbiadì il secondo. La sinistra deve ricominciare da quello snodo mancato.
Da come lo descrive firmerebbe per avere di nuovo Francesco Rutelli in pista. Ma che alleanza, e su cosa soprattutto, si può costituire oggi?
Il leader che rappresenterà il campo alternativo alla destra, sarà determinato dai processi politici futuri. Su Rutelli ho semplicemente osservato che è un vero peccato che abbia scelto un ruolo politicamente defilato. Conosco bene il suo talento. L’ho toccato con mano quando è stato sindaco di Roma. Lui e Veltroni hanno determinato un nuovo corso della capitale. Purtroppo negli anni successivi interrotto malamente. Solo ora Gualtieri con straordinaria tenacia sta invertendo la rotta negativa. L’alleanza progressista, comunque, è possibile solo se ognuno fa prevalere l’interesse comune e l’ambizione di rinnovare la nostra democrazia antifascista e il progetto di una società responsabile verso le disuguaglianze sociali e l’ambiente. Non servono pretese a tavolino di un ruolo egemonico. L’egemonia si conquista sul campo, nella concretezza del fare, nella capacità di rappresentare da parte di ciascuno al meglio uno spirito unitario e nazionale.
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