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Il governo dice di voler “chiedere di più a chi ha di più”, ma in realtà non tocca mai i veri ricchi. Preferisce prendersela con le banche — che non votano — e confondere le acque mettendo insieme il patrimonio della piccola e media borghesia con quello dei grandi detentori di ricchezza. Così può fingere di difendere la collettività dagli “espropri proletari”, mentre in realtà tutela i pochissimi che contano davvero.
Tommaso Di Tanno lo spiega bene: in Italia chi ha cento milioni e non li mette a reddito paga esattamente quanto chi non ha nulla. Zero. Ma la questione non è solo economica — è politica. I ricchi veri sono già con il centrodestra, non c’è bisogno di accontentarli. Il punto è che Meloni e Salvini si sono presi i ceti medi e i cittadini a partita IVA, quelli che si sentono abbandonati dallo Stato e tartassati dal fisco. È lì che si costruisce il consenso, ed è lì che la sinistra ha perso la sua egemonia.
Una patrimoniale mirata, come quella proposta da Gabriel Zucman in Francia — due per cento sopra i cento milioni, scalabile con l’imposta sul reddito — non colpirebbe questi ceti, ma i veri privilegiati. Sarebbe un modo per riequilibrare il sistema e ricostruire un’alleanza sociale tra lavoratori, professionisti, artigiani e piccola impresa, contro un modello che oggi favorisce la rendita e penalizza chi produce.
Non è questione di invidia sociale, ma di giustizia. Gramsci parlava di blocco storico: oggi quella sfida passa da qui, da una patrimoniale intelligente e da una riduzione del peso fiscale su lavoro e impresa reale. Non per punire la ricchezza, ma per liberarla dalla rendita.





