Nell’elettorato di sinistra è in corso un terremoto che sembra sfuggire ai sismografi dei politologi. È come se di colpo in molti, soprattutto tra gli over 50, si fossero liberati da un antico e a suo tempo nobile retaggio della cultura comunista: la disciplina.

Chi non era comunista lo schifava come conformismo, cosa in parte vera anche perché si parla di un carattere ineludibile della cultura nazionale.

Ma nella sua natura più genuina si trattava di una matura adesione a un progetto collettivo senza la quale lo stesso granitico Pci di Enrico Berlinguer sarebbe passato da una scissione all’altra, come è infatti puntualmente avvenuto a partire dal 1989, quando la politica è passata dai movimenti popolari ai partiti personali.

Come il presente dimostra, non c’è politica dal basso senza disciplina e non c’è disciplina senza una leadership credibile.

I leader dei nostri tempi hanno così deciso di fare a meno della politica partecipata, credendo di poter evocare a comando il riflesso condizionato della disciplina.

Ma di colpo, in questa torrida estate, è tutto cambiato. Il sintomo più eclatante è la scomparsa dal lessico del popolo di sinistra dell’aggettivo “qualunquista”, tradizionale invettiva scagliata contro i compagni che sbagliavano, quelli che si azzardavano a dire «il re è nudo» quando la ragion politica imponeva di non vedere le cose a maggior gloria del progetto di emancipazione degli oppressi. Nessuno viene più accusato di qualunquismo, tutt’al più di stupidità. Ma dire che il re è nudo non è più vietato.

I COCCODRILLI NON VOLANO PIÙ

C’è una leggendaria barzelletta con cui i comunisti amavano ridere di se stessi. Il bambino chiede al padre: «Ma è vero che i coccodrilli volano?». «Ma certo che no!», risponde esterrefatto l’operaio normodotato. «Ma babbo, c’è scritto sull’Unità», e lì il compagno padre assume un’aria pensosa e formula la sintesi politica: «Beh, insomma, sì, volicchiano…».

Per decenni hanno fatto volicchiare i coccodrilli. I coccodrilli volicchiavano e i carri armati sovietici difendevano la democrazia a Budapest nel 1956.

I coccodrilli volicchiavano e il governo monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti nel 1976 era una tappa obbligata verso il socialismo. I coccodrilli volicchiavano e i comunisti, salvando in parlamento Andreotti del processo per lo scandalo petroli nel 1983, rendevano più vicina la fine dello sfruttamento del lavoro.

Adesso i coccodrilli non volicchiano più. In termini politici questa rivolta si concretizza nel rifiuto del cosiddetto voto utile.

In termini più antropologici c’è la fiera rivendicazione di sapere dare alle cose il loro nome. Il sottotesto è: «Chi ha creduto che fossimo tutti scemi non ha capito che nei coccodrilli volanti mettevamo la nostra intelligenza politica».

LA VITTIMA LETTA

La prima vittima di questo colpo di scena è il leader del Pd Enrico Letta. Erede della cultura democristiana che si faceva beffe dei volatori di coccodrilli, prova a emulare Berlinguer e formula un disperato appello al voto utile di salvezza nazionale per il suo partito (erede della Dc e del Pci, un amalgama non riuscito, per dirla con Massimo D’Alema) per difendere la costituzione e la democrazia dalla minaccia orbaniana, cioè fascista ma non si può dire.

Poi va ad esibirsi al Meeting di Comunione e liberazione con i tre leader della destra (Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Antonio Tajani) e si dimentica di dire che li considera un pericolo per la democrazia. E, errore di comunicazione ancora più grave, si fa fotografare seduto al bar con i suddetti nella tipica posa dei bravi colleghi che cazzeggiano amabilmente prima di salire sul palcoscenico per la quotidiana recita del conflitto.

Poi però dichiara di aver scelto la strada della «comunicazione brutale» perché «bisogna dare la sveglia agli italiani». L’elettore di sinistra, convinto che se c’è uno a cui bisogna dare la sveglia è proprio Letta, si sente preso in giro dalla farsa.

E stavolta lo dice.

Il motivo è semplice, ha perso il senso della disciplina perché non c’è più una comunità in cui riconoscersi, adesso vede solo dei politicanti all’inseguimento dell’interesse personale. Magari sbaglia, ma le cose stanno così: l’argine si è rotto.

Lanfranco Turci, bisnonno modenese di 81 anni, è un pezzo di storia del Pci. A 37 anni era già presidente della regione Emilia Romagna, poi è stato nominato dal partito presidente della Lega delle Cooperative, longa manus del Pci nel capitalismo.

Negli anni Ottanta è stato con Giorgio Napolitano uno dei leader della cosiddetta corrente migliorista del Pci, che criticava Berlinguer da destra spingendo per il dialogo con il Psi di Bettino Craxi.

Per i volatori di coccodrilli era poco meno di un traditore. Adesso scrive su Facebook, con ironia, cose un tempo impensabili: «Diverse persone oggi nel Pd criticano le mie posizioni di sinistra piuttosto radicale, ricordando i miei precedenti di migliorista nel Pci. Invidio la serenità di quelli tutti d’un pezzo che sono passati da comunisti a liberali senza neppure rendersene conto. Di loro è il regno dei cieli!».

Chiusa l’analisi storica, passa al presente: «Una campagna elettorale, fra gladiatrici, occhi di tigre e “fascisti”, da far cadere le p… sotto i piedi. Tutto spinge, per chi vuole cercare una chance a sinistra, anche se con incerte speranze, a orientarsi verso Unione popolare o Cinque Stelle».

L’INIZIO DELLA FINE

Facciamo un passo indietro, al 13 giugno 1984, quando si celebrano a Roma i funerali di Enrico Berlinguer. Arrivano due milioni persone (reali, non numeri inventati come per certe manifestazioni sindacali o Family day) e fa un caldo spaventoso.

A pochi metri dalla sede comunista di via delle Botteghe Oscure, da cui sta per partire il corteo funebre, un piccolo corteo di auto blu climatizzate fende la folla sudaticcia di comunisti dolenti.

Dalla prima auto scende il presidente dell’Emilia Turci, fresco come una rosa, Ray-Ban scuri e perfetto abito blu da cerimonia. Un militante esperto e colto, come tutti con le lacrime agli occhi, lo guarda con una smorfia di schifo: «Ecco gli emiliani, finiremo tutti così».

Col senno di poi, mai analisi fu più sbagliata. Turci e quelli come lui volevano stare dentro il capitalismo e governarlo da comunisti. Forse sbagliavano, ma partecipavano a una battaglia di idee.

Fino a quel giorno il Pci aveva al vertice persone diversissime tra loro, uomini come Giancarlo Pajetta, Pietro Ingrao, Emanuele Macaluso se le davano di santa ragione per far pesare le proprie idee sulla linea del partito, ma non hanno mai pensato di far fuori Berlinguer, uomo di sintesi con cui nessuno di loro era mai completamente d’accordo, per prenderne il posto.

E invece proprio il giorno del funerale del capo, proprio mentre Turci scende dalla Croma climatizzata, a pochi metri da lì, dentro il garage del palazzone di Botteghe Oscure, avviene il vero cambiamento, l’inizio della fine.

Achille Occhetto, 48 anni, e Massimo D’Alema, 35, si mettono d’accordo “corpore praesenti” per coordinare le rispettive ambizioni personali. Fuori i vecchi che hanno fatto la Resistenza e largo ai giovani. Prima toccherà a Occhetto, poi a D’Alema.

Da quel momento il grande partito della sinistra diventa terreno di battaglia per le ambizioni personali. Per qualche anno in segreto. Nel 1988 i due fanno fuori il successore di Berlinguer, l’anziano gentiluomo Alessandro Natta, approfittando in un malore e di un ricovero in ospedale.

L’operazione viene perfezionata nel corridoio dell’ospedale senza riconoscere la moglie del ricoverato che è lì seduta e sente tutto. Natta si dimette e scrive una lettera alla direzione del Pci talmente violenta da venire secretata per anni: «Compagni, non vi siete comportati lealmente. C’è stato un tramestio, davanti alla mia stanza di ospedale…».

Occhetto viene eletto segretario al suo posto e un anno dopo fa la storica svolta della Bolognina: il Pci diventa Pds, la parola comunista scompare. E, ironia della sorte, in nome della modernizzazione, Occhetto fa fuori Turci dalla Lega delle cooperative, perché i manager delle coop rivendicano la libertà di fare business come i loro colleghi delle aziende private (e con gli stessi stipendi) e Turci, con la sua idea di “governare il sistema”, è di ostacolo.

VERSO L’AFFARISMO

Al congresso di fondazione del Pds (Rimini, 1991) c’è il primo tentativo di D’Alema di far fuori Occhetto, ma fallisce. Il momento giusto arriva nel 1994: Occhetto schiera contro Silvio Berlusconi la sua “gioiosa macchina da guerra” (chi ironizza sugli “occhi di trigre” di Letta si ricordi quanto è antica la capacità della sinistra di farsi ridere dietro) e perde rovinosamente.

Alle europee, tre mesi dopo, Berlusconi dilaga e D’Alema presenta il conto a Occhetto, che è ancora incazzato dopo 28 anni, e da allora lo chiama con disprezzo “il deputato di Gallipoli”.

Per l’elezione del nuovo segretario Occhetto cerca la vendetta schierando contro D’Alema Walter Veltroni. In un duello all’ultimo voto prevale il primo, ma rimane per sempre una rivalità acida che azzopperà per vent’anni il partito, fino a che Matteo Renzi non rottamerà tutti e due.

Di quella rivalità al popolo comunista rimane una sola cosa buona, le monumentali battute di D’Alema sull’arcinemico, tra cui l’indimenticabile «È l’unico uomo al mondo che ha scritto più libri di quanti ne abbia letto».

Tra le tante cose cattive rimane la profonda devastazione della cultura politica: un machiavellismo da accattoni ha spinto a credere che la politica vera sia lo scannarsi per il potere personale, mentre lo stile va lasciato alle anime belle.

La cosa peggiore è che questa trasformazione ha reso i Ds prima e il Pd poi attraenti per personaggi orrendi dediti solo a farsi gli affari propri, come da anni si può constatare a occhio nudo a Roma.

Fino agli anni Ottanta chi voleva usare la politica per i propri affari si iscriveva al Psi, o almeno di questo erano convinti i militanti del Pci che per questo in grande maggioranza non volevano sentir parlare di dialogo con Craxi.

Dopo Occhetto anche il Pds-Ds-Pd ha sdoganato l’affarismo politico, riconoscendogli anche un certo fascino, contrabbandando l’idea che certi malfattori amici dei leader facevano per la causa molto più degli ingenui militanti di base, i soliti tonti.

I volatori di coccodrilli per anni hanno eroicamente finto di non capire. Per esempio nessuno ha mai raccontato i colpi bassi, se non infimi, con cui alle primarie del 2009 gli ex comunisti sostenitori della candidatura di Dario Franceschini hanno cercato sottobanco di azzoppare Pier Luigi Bersani nella corsa alla segreteria.

Di questa devastazione antica tocca a Enrico Letta raccogliere i frutti avvelenati.

GLI ELETTORI

Ma chi sono questi fantomatici elettori di sinistra che tutti credono estinti? Facciamo due conti. Alle europee del 1984, all’indomani della morte di Berlinguer, il Pci prese 12 milioni di voti.

Chi votò allora adesso ha almeno 56 anni. Gli elettori over 56 sono 22,5 milioni e quindi, siccome il Pci nell’84 prese il 33,33 per cento dei voti, un terzo esatto, il 25 settembre saranno chiamati alle urne 7,5 milioni di elettrici ed elettori che hanno votato Pci nell’84: il 15 per cento dell’elettorato attuale. Se disertassero le urne meno degli altri, potrebbero arrivare a valere anche il 20-25 per cento.

Vero che nel frattempo molti di loro possono essere diventati berlusconiani o leghisti o renziani, ma rimane il fatto che stiamo parlando di milioni di persone che votavano Pci sapendo che sarebbe stato sempre all’opposizione e che la politica non coincide necessariamente con il potere. Gente che almeno una volta, da giovane, ha sentito il prurito di votare per un mondo migliore, fatta la debita eccezione per chi, una minoranza, era integrato nei sistemi clientelari locali con cui il Pci scimmiottava la Dc.

Parliamo comunque di una preda elettorale preziosa. Che però non ci crede più, principalmente perché i leader del centro-sinistra non li conoscono più, ne hanno dimenticato l’esistenza e ne ignorano la cultura e la capacità di pensiero. Ignorano che è la parte dell’elettorato con la più profonda cultura politica.

Credono che per i volatori di coccodrilli basti l’antico richiamo alla disciplina antifascista, alla quale attaccano la proposta di «voto utile». E invece non basta più. E non riescono a capire come voteranno le volpi argentate del comunismo.

Basta farsi un giro a Pisa, la città di Letta ma anche del leader di Sinistra italiana Nicola Fratoianni, la culla del Sessantotto e della carriera politica di D’Alema e Adriano Sofri.

A Pisa l’elettore è più informato ed esperto della media. Il collegio uninominale per la Camera, dapprima assegnato dalla coalizione a Fratoianni, è stato all’ultimo momento destinato a un altro pisano, il costituzionalista Stefano Ceccanti.

Da un ex comunista a un ex democristiano senza dare alcuna spiegazione politica del gesto, con l’idea che tanto c’è da dare il voto utile contro Meloni, quindi un candidato vale l’altro.

L’elettore over 50 della sinistra pisana è scandalizzato, e risponde a Letta con un ragionamento speculare che paradossalmente conferma l’assunto: «Se per te Fratoianni e Ceccanti sono la stessa cosa, figurati per me. Infatti non vi voto». Ed è così che si sdogana in scioltezza un qualunquismo ragionato che non fa più scandalo.

Non potendo andare a parlare nelle sezioni che non ci sono più, discutono, accanitamente come sempre, su Facebook. Quelli del voto utile accusano i ribelli di sprecare il voto con Unione Popolare (che prenderà pochi voti, dicono, anche se, se tutti ragionano così, ne prenderà pochi davvero), qualcuno rispolvera una sbiadita accusa d’antan, il settarismo.

VOTO UTILE A CHI?

Si discute in modo anche acceso: «Se il Pd fosse un partito di sinistra non ci sarebbe nessun settarismo e opposizione. Solamente non lo è più da quando da Veltroni a Renzi e oggi Letta hanno distrutto la vera sinistra. Marcucci, Romano, Franceschini, Guerini, Orfini ecc sono la sinistra?». Si sentono accerchiati: alla Camera Ceccanti, al Senato il renziano Andrea Marcucci, in parlamento dal 1992 quando fu eletto dal Partito liberale di Renato Altissimo. Ecco l’argomentazione dell’uomo qualunque di sinistra: «Bastaaaaaa! con i voti utili. Ma poi utili a chi?

Certamente non ai giovani, ai lavoratori e ai pensionati. Utili solo per chi vuol rimanere in parlamento a scaldare la poltrona». Eccone una più politica: «La colpa è sempre degli altri, anche se il Pd sta governando da 10 anni e abbiamo i salari più bassi d’Europa».

Si cerca di capire: «In questi giorni di forte smarrimento ho cercato di parlare e ascoltare con più persone possibile. I più anziani sono preoccupati e predicano il voto per il Pd in modo fideistico. Alcuni sono convinti che il Pd possa recuperare lo svantaggio.

I più giovani non si riconoscono in questa proposta, alcuni non la percepiscono, quasi tutti non la capiscono. Le tragedie sulle candidature hanno segnato un profondo disincanto. Il richiamo al voto utile funziona poco con chi è cresciuto negli ultimi 30 anni, nella paura di Berlusconi prima, Salvini poi».

Questo punto è di grande interesse, se ne deduce che il vecchio volatore di coccodrilli sarebbe anche pronto a dare il voto utile, ma suo figlio no, e lui non sa come convincerlo e tutto sommato non vuole.

Roberta conferma: «In casa mia c’è casino, andiamo a tavola con pane e politica e litighiamo come se non ci fosse un domani, ma i miei giovani cercano un voto di contrasto alla destra ma non vogliono il Pd, non vogliono Letta, lo definiscono un democristiano». Il Pd non mi piace e non lo voto.

Il voto “fideistico” sembra ormai residuale: «Per intanto voto Conte, che mi pare quello più vicino ai bisogni delle persone disagiate, del resto è la prima volta che voto 5 stelle, e se sarò delusa dalla mia scelta sarà stata la prima, in confronto alle tante volte che mi ha delusa il Pd e tutte le altre sue precedenti sigle».

Picchia duro Patrizia: «Nonostante la mia storia politica e personale, fatta di grandi battaglie sociali, portate avanti insieme a tanti compagni conosciuti e sconosciuti, oggi io posso dire con assoluta certezza che il Pd ed suoi consociati non mi rappresentano, anzi precisamente non mi appartengono più. NON MI FIDO PIÙ DI LORO. Per questo ho deciso che non li voterò ed il mio voto andrà al presidente Conte, un partito che sarà chiaramente all’opposizione ma che sarà da pungolo per tutti gli altri partiti».

“Non mi fido più di loro” segna il passaggio dallo schema politico al giudizio antropologico e anche morale. Fausto, militante antico con esperienze anche da amministratore, non rinuncia al voto utile ma sa con chi sta discutendo e non rinuncia ad avvertire con ironia i compagni che anche lui è un po’ schifato e che sarà semmai lui a usare questi politicanti e non il contrario: «Calenda e Renzi mi stanno simpatici come un’esplorazione rettale, eppure spero che abbiano un buon risultato elettorale; questo vale anche per i grillini e Conte che considero un tegame di prima fattura (nel toscano tirrenico post-dantesco, tegame è sinonimo di prostituta, adatto anche per definire il politico troppo spregiudicato, ndr).

Lo stesso dicasi perfino per Unione Popolare e quello squilibrato di De Magistris. Il mio entusiasmo per Letta e la lista Democratici e Progressisti che voterò, è prossimo allo zero. Ma gli avversari, quelli veri e pericolosi stanno altrove. Per questo motivo, fino al 25 settembre non pronuncerò nessuna parola contro questa banda di sciamannati».

Con questi chiari di luna la partita sull’elettorato di sinistra è apertissima e si profila una gara tra Letta, Conte e De Magistris a chi sbaglia meno. Si accettano scommesse.