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Affrontare le crisi senza uno straccio di coordinamento internazionale affidandosi ai soli capitalisti privati. Potremmo chiamarlo “sovranismo padronale” e sintetizza bene le compulsioni del governo italiano in tema di ristrutturazioni industriali. Il caso dell’acciaio è emblematico.
Quando si dice che di necessità si può fare virtù: l’eredità storica di paese carente di materie prime ci ha resi virtuosi nella produzione di acciaio. La siderurgia italiana è tra le più efficienti dal punto di vista del riciclo: circa l’85 percento del prodotto deriva da rottame ferroso, a fronte di una media europea del 60 e una media mondiale di appena il 30 percento. Per questa ragione, l’industria italiana è complessivamente anche la più pulita in assoluto: rispetto alla media mondiale, emettiamo meno della metà di tonnellate di anidride carbonica per ogni tonnellata di acciaio realizzata. Inoltre, a riprova del fatto che il problema principale non riguarda la quantità di occupati, l’acciaio italiano viene realizzato con livelli di produttività senza pari in larga parte del mondo: dal 25 al 35 percento di valore aggiunto in più per addetto rispetto ai principali concorrenti Ue.
Certo, la crisi in corso riguarda principalmente gli impianti ex-Ilva, che sono produttori della quota residua di acciaio primario, ossia non riciclato, di poco superiore al 10 percento nazionale. Con questa giustificazione, Federacciai sostiene che sarebbe meglio disfarsene. E il governo, a ruota, sembra fermo sull’ipotesi di regalare gli impianti a fondi esteri intenzionati a spacchettare, distruggere e rivendere in fretta.
Il problema è che l’acciaio primario rappresenta tuttora un semi-lavorato insostituibile in molte industrie ad alto valore aggiunto. Non a caso, il calo della produzione nazionale si è tradotto in un significativo aumento delle importazioni dall’estero. Ecco un tipico esempio in cui, con un furbo travisamento della questione ecologica, il “sovranismo padronale” si accinge a determinare danni sistemici, nell’interesse di pochi affaristi.
Affrontare la questione secondo logica, invece, richiederebbe un ribaltamento dei termini del problema. Ossia, proprio il fatto che la quota di produzione al centro della crisi è al tempo stesso modesta ma difficilmente sostituibile, consentirebbe di inquadrarla in una strategia di carattere generale. Diciamo pure, senza scandalizzarci: di pianificazione pubblica, per decidere i destini della siderurgia italiana all’interno di un quadro europeo che finora è risultato sbilanciato e contraddittorio.
Nel dibattito sull’acciaio si fa spesso riferimento agli eccessi di capacità produttiva causati dalla superproduzione cinese e dai dazi americani. Questi problemi esistono ma sono secondari. Gli Stati Uniti registrano già un deficit commerciale siderurgico di 18 milioni di tonnellate, quasi il 20 percento della loro produzione interna, circa 11 miliardi di dollari. Quindi, pretendere dagli americani di importare ulteriormente è una partita persa. Quanto all’enorme export cinese, si tratta di un’onda che colpisce tutti ma l’Unione europea sta reggendo bene l’impatto. Infatti, se è vero che siamo in deficit di tonnellate, in valore monetario risultiamo comunque in surplus di circa 5 miliardi di euro.
Lo sbilancio principale dell’acciaio, allora, non è fuori ma è dentro l’Unione europea. Basti notare un fatto. Gli impianti tedeschi riciclano molto meno, inquinano molto di più e sono pure caratterizzati da minore produttività del lavoro. Eppure, la Germania è in surplus di 4,3 milioni di tonnellate, mentre l’Italia è in deficit di 3,5 milioni di tonnellate. Rivendicare un riequilibrio interno all’Ue costituirebbe non solo una legittima istanza nazionale ma anche una giusta proposta di pianificazione ecologica europea.
Sarebbe il caso di sollevare il problema con von der Leyen, che a parole insiste su una siderurgia europea “forte e decarbonizzata”. Ma forse i sedicenti patrioti di Meloni sono troppo indaffarati a cedere l’acciaio italiano a qualche speculatore di passaggio.





