
Quando la fede smette di dire cosa crede
26 Dicembre 2025
Tra il pavimento del Duomo e i Tre filosofi: una soglia tra sintesi sapienziale e disciplina tridentina
26 Dicembre 2025
Davanti ai Tre filosofi di Giorgione si ha la sensazione che qualcosa stia per accadere, ma non accade. Tutto è sospeso. I personaggi osservano, misurano, attendono. Il quadro sembra trattenere un senso che non si lascia afferrare.
L’opera nasce nella Venezia dei primi del Cinquecento, in un ambiente colto e inquieto, dove mercanti come Taddeo Contarini univano ricchezza, curiosità filosofica, interesse per astrologia, alchimia e neoplatonismo. Non era semplice erudizione: era il tentativo di costruire uno spazio culturale autonomo, senza rompere apertamente con l’ordine religioso, ma nemmeno sottomettersi del tutto ad esso.
La scena è essenziale. Tre figure stanno davanti a una grotta scura. Un giovane con strumenti di misura, un uomo vestito “all’orientale”, un vecchio che regge fogli con calcoli e segni celesti. Alle loro spalle un paesaggio al tramonto. Tutto converge verso quell’apertura nera, silenziosa.
Nel tempo si è cercato di dare un nome a quei tre: Re Magi, età del sapere, Mosè–Maometto–Anticristo, filosofia antica, araba e moderna. Ma nessuna lettura riesce a chiudere il senso. Giorgione costruisce volutamente un’immagine aperta, stratificata, resistente a una verità unica.
Il centro vero non sono le figure, ma la grotta. In essa si sovrappongono più tradizioni: la caverna di Platone, luogo dell’illusione da cui liberarsi; la grotta mitriaca, spazio iniziatico e cosmico; la grotta cristiana della Natività, luogo dell’origine salvifica. Tre simboli diversi, compressi nello stesso punto. E tuttavia la grotta è vuota.
Qui si gioca il significato profondo del dipinto. L’origine non si manifesta. La rivelazione non arriva. I filosofi osservano, calcolano, interpretano, ma ciò che cercano si ritrae. È l’alba della modernità: l’uomo si presenta davanti al fondamento armato di strumenti razionali, ma l’essere non si lascia più possedere.
Lo suggerisce anche la natura: dietro il giovane la vegetazione è secca, dietro la figura centrale rada, solo presso il vecchio resta un po’ di verde. Come se, avanzando nel tempo, qualcosa si impoverisse. Non per colpa morale, ma per perdita di contatto con l’origine.
In questo senso il quadro parla direttamente al nostro presente. Viviamo anche noi in un interregno: le vecchie fondamenta simboliche non reggono più, ma le nuove non sono ancora nate. È la condizione descritta da Gramsci, quando scrive che in questi passaggi proliferano i “fenomeni morbosi”.
La grotta di Giorgione rende visibile questa stratificazione. Le culture non si cancellano: si sovrappongono. Il cristianesimo ha assorbito simboli precedenti, trasformandoli; il potere non distrugge, ma incorpora e risignifica. Questa è l’egemonia. Anche oggi vediamo simboli riciclati, svuotati, riutilizzati come involucri identitari.
La cerchia veneziana di Contarini tentò una propria “guerra di posizione”: costruire un immaginario alternativo, colto, allusivo. Ma restò un’esperienza aristocratica, incapace di diventare senso comune. Ed è qui che il dipinto mostra il suo limite storico: i filosofi restano fermi sulla soglia. Pensano, osservano, calcolano. Non entrano nella grotta.
Per questo l’opera non parla solo del Rinascimento, ma di noi. Anche oggi sappiamo analizzare la crisi, descriverla, misurarla. Ma spesso restiamo immobili davanti al vuoto.
Il punto, allora, non è interpretare meglio, ma agire diversamente. Entrare nella grotta. Attraversare il vuoto senza garanzie. Trasformare la materia e il senso insieme. È in questa direzione che va il progetto del Riccio: non come metafora astratta, ma come pratica concreta che unisce tecnica, ambiente e simbolo, producendo forme nuove a partire da ciò che già c’è.
C’è però una lezione decisiva da non dimenticare: se la trasformazione resta per pochi, fallisce. La cultura che non diventa esperienza condivisa non costruisce egemonia. La consorteria rinascimentale perse perché rimase chiusa, elitaria.
I tre filosofi restano davanti alla grotta. Noi possiamo fare un passo in più. Non limitarci a contemplare la crisi, ma attraversarla. Perché solo entrando nel vuoto si può, pezzo dopo pezzo, costruire un nuovo senso comune all’altezza del tempo che viviamo.





