Israele colpisce ovunque, le bombe le fornisce Biden
31 Dicembre 2023Kertész umano troppo umano
31 Dicembre 2023
Massimo Gaggi
«Fatico a capire come, in un mondo di nuovo molto instabile, tra conflitti, dittatori aggressivi e un’America che è comunque tendenzialmente in ritirata, l’Europa non sia seriamente al lavoro per rafforzare il suo dispositivo militare, creare un deterrente credibile. Almeno i principali Paesi — Francia, Germania, Italia e la stessa Gran Bretagna, anche se è fuori dall’Ue — dovrebbero avere una politica industriale militare condivisa, convergere su progetti comuni, produrre navi, aerei, missili con caratteristiche simili, potenzialmente intercambiabili tra le varie forze. E, poi, si dovrebbe investire di più nella difesa: almeno il 2,5 per cento, forse il 3 per cento del reddito nazionale, mentre oggi molti, nella Nato, non arrivano al 2. Mi pare che in Europa ci sia una mancanza di immaginazione politica, un’indecisione di fondo. Bisogna avere il coraggio di dire ai propri popoli: non sappiamo che cosa ci riserva il futuro, ma viviamo in un mondo pericoloso ed è prudente investire di più anche per difenderci».
Nel suo ufficio al secondo piano del candido edificio neoclassico dell’International Security Studies Institute dell’Università di Yale, lo storico Paul Kennedy riflette sulle trasformazioni nel mondo e su un’Europa che ha saputo costruire una straordinaria era di pace durata tre quarti di secolo. Ma che, dice, illusa da una così lunga epoca di stabilità, non si rende conto di quanto sia rischioso non avere un proprio apparato di difesa credibile: anche per questo il continente, che ha già perso la sua storica centralità, rischia di scivolare piano piano nelle retrovie del confronto tra grandi potenze.
A dispetto dell’età — classe 1945 — lo storico britannico, che ha appena festeggiato i 40 anni di insegnamento a Yale, continua a svolgere un’attività accademica intensa: «Per settimane sarò assorbito dall’esame dei paper dei miei 25 studenti undergraduate e dei 6 graduate. Saggi corposi, di almeno cinquemila parole. Poi, però, mi concentrerò sull’impianto del mio prossimo libro. Manderò lo schema al mio agente di Londra, in realtà uno scozzese: con lui vedremo il da farsi».
È questo il progetto che gli sta più a cuore: 36 anni dopo Ascesa e declino delle grandi potenze (pubblicato in Italia da Garzanti), il saggio che fu un successo mondiale e che gli ha dato la fama di profeta del crollo dell’Unione Sovietica e della prorompente ascesa della Cina, Kennedy vuole ripetere l’esercizio di prevedere le dinamiche planetarie del futuro. Progetto ambizioso che lui affronta, però, con grande modestia. Evita di fare congetture sull’esito del conflitto in Israele («troppo complesso il puzzle mediorientale e impossibile prevedere come finirà la disputa tra due popoli che reclamano la stessa terra») e ammette di avere sbagliato l’analisi su Donald Trump: «Dopo la sconfitta del 2020 ero convinto che la sua storia di protagonista della politica fosse conclusa».
Nel costruire ipotesi, Kennedy preferisce basarsi, come già fece negli anni Ottanta, su elementi strutturali: previsioni di sviluppo economico e tecnologico, andamenti demografici, potenza militare legata a obiettivi geostrategici. Ma, volendo immaginare come sarà il mondo del 2050, lo storico si rende conto che ci sono fattori — ambiente, possibili sconvolgimenti sociali e politici, guerre — in grado di alterare i parametri sui quali lavora partendo dalle analisi della Banca Mondiale, dell’Ocse e di diversi centri di ricerca privati. Cose di cui discute con gli altri docenti e anche con gli studenti.
Scendiamo al piano di sotto, nella seminar room dove una trentina di studenti e sei professori lo aspettano per un incontro concepito come un brainstorming, più che come una lezione: la presentazione Powerpoint del suo progetto editoriale, il cui titolo provvisorio è Verso un mondo tripolare.
Kennedy parte dalle analisi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà tra Occidente e resto del mondo per poi analizzare potenza e difficoltà della Cina e il ruolo di un’America sempre leader che da decenni gestisce con saggezza e rallenta il suo inevitabile declino in un mondo il cui baricentro scivola verso l’Asia: continente nel quale diventano potenze economiche anche Corea, Indonesia e Vietnam, oltre a Giappone, Taiwan e, ovviamente, la Cina. Poi sposta l’attenzione sulla crescita tumultuosa, anche se piena di contraddizioni, dell’India e sulle ambizioni di Narendra Modi: economiche e militari (il Paese sta costruendo addirittura sei portaerei), ma anche di peso e prestigio internazionale. Kennedy invita gli studenti ad ascoltare i messaggi rivolti al mondo che Modi trasmette ogni settimana. Intanto alle sue spalle scorrono le slide con le curve della crescita che indicano impennate impressionanti delle quote di Pil mondiale prodotte dalle economie asiatiche, mentre quelle dell’Unione Europea e della Russia ristagnano e quella degli Stati Uniti cresce di poco.
L’ultima immagine colpisce più di tutte. È una mappa del mondo tripolare nella quale campeggiano le immagini di tre animali: un grande panda per la Cina, il volto di una tigre che copre il profilo del subcontinente indiano, un’aquila per gli Stati Uniti. Nulla sulle mappe dell’Europa e della Russia.
La discussione che avvia alla fine con gli studenti, la continuiamo, poi, di nuovo nel suo ufficio.
Fa impressione vedere l’Europa scomparire dalla sua mappa del mondo tripolare. Un continente che è ancora un mercato enorme: alto reddito, buoni livelli d’istruzione, elevata qualità della vita…
«Beh, l’Europa di certo non sparisce. Avrà anche in futuro un ruolo politico centrale. Se nel 2030 avremo un’Unione Europea che comprenderà anche l’Ucraina, assisteremo a una trasformazione storica delle dinamiche politiche internazionali. Anche tutta l’area del Caucaso sarà attratta verso la Ue. Con un conseguente maggiore isolamento della Russia».
Ma nel suo schema l’Europa rimane in seconda fila con livelli di sviluppo economico analoghi a quelli dell’ex impero sovietico che, guerre a parte, è in recessione demografica e industriale, con la produzione concentrata nel settore bellico. Grande forza solo nell’estrazione di petrolio, gas e altri minerali, ma l’era dei combustibili fossili volge al termine…
«Credo che la Russia abbia possibilità di sviluppo industriale in altri campi, come la microelettronica, fin qui sottovalutati. E l’estrazione di idrocarburi resterà strategica per molti anni ancora. Ma, anche se dovesse tornare a crescere, Mosca non potrà mai competere per dinamismo con le tigri asiatiche. Fino all’attacco di Hamas, Vladimir Putin rappresentava l’unica grossa anomalia rispetto a equilibri mondiali basati su obiettivi di crescita, oltre che su ambizioni geopolitiche. La guerra contro l’Ucraina, il suo modo di tentare di ridare alla Russia un ruolo di grande potenza, ha avuto l’effetto opposto. Un affare per la Cina: Mosca indebolita, più lontana dall’Europa, più dipendente da Pechino che, oltretutto, ottiene gas e petrolio a buon mercato. Secondo vantaggio per la Cina: Stati Uniti meno concentrati sul Pacifico. Detto tutto questo, quando esaminiamo i dati delle sei grandi potenze del mondo — Europa, Giappone, Russia, India, Cina e Stati Uniti — vediamo che in tutte le previsioni internazionali le prime due, con le loro preoccupazioni esclusivamente difensive, ristagnano o avranno tassi di crescita economica molto limitati, mentre la Russia ha problemi ancora più gravi. Restano le altre tre: l’America in crescita moderata, ma ancora leader sul piano tecnologico e militare. E poi India e Cina, che rimangono su una traiettoria di rapida crescita. Ci sono incognite, certo, ma le previsioni ci dicono che, pesando le economie con il metodo del potere d’acquisto reale del reddito nei vari Paesi (Ppp), nel 2050 non solo l’economia cinese varrà quasi il doppio di quella statunitense, ma anche quella indiana supererà di molto il reddito Ppp degli Usa».
Gli economisti sono divisi sul valore della metrica della parità dei poteri d’acquisto. E quest’anno il rallentamento della Cina e una crescita sorprendentemente vivace del Pil americano hanno indotto molti a considerare quello del sorpasso cinese un pericolo che si allontana molto nel tempo.
«Basarsi sul Pil in dollari reali può essere più rilevante per misurare la condizione finanziaria dei vari Paesi, ma sono in molti a ritenere che il calcolo in base ai poteri d’acquisto renda meglio le dinamiche economiche e sociali. Comunque, certo, sono problematiche complesse, che vanno esaminate da vari punti di vista. Concentrandosi sulle tendenze di lungo periodo e usando i parametri più significativi. Ad esempio, negli anni Ottanta, quando lavoravo ad Ascesa e declino delle grandi potenze, la fragilità dell’Unione Sovietica emerse non solo dai negativi dati economici, ma anche dal military overstretch: il sovraccarico di una spesa bellica enorme, che assorbiva una grossa fetta del reddito nazionale. La Cina sta investendo moltissimo nel rafforzamento del suo dispositivo militare, ma quell’errore non l’ha commesso: non si può dire che coltivi ambizioni superiori alle sue risorse, anche perché ha un’economia vastissima».
In che misura, per il nuovo libro, s’ispira al metodo di lavoro seguito per quel saggio?
«Il libro uscì 36 anni fa, nel gennaio del 1988, in un momento particolarmente fortunato. Iniziava un biennio di grandi trasformazioni storiche: gli equilibri planetari si stavano spostando e i lettori avevano bisogno di spiegazioni. Ascesa e declino ne offriva una basata su una valutazione di fondo: rilevanza geopolitica e forza militare sono sempre il prodotto di una potenza economica che è in continua evoluzione. Nessuna nazione può aspettarsi di restare leader per sempre e comunque la sua potenza non si misura in termini assoluti, ma in relazione all’evoluzione degli altri grandi attori internazionali. Quindi i rapporti di forza cambiano continuamente in relazione alla crescita non solo delle economie, ma delle varie società, dei livelli d’istruzione, dei progressi tecnologici e della capacità di migliorare la propria organizzazione. Tutto questo rimane valido oggi, anche se i parametri da utilizzare vanno aggiornati dando, ad esempio, maggior peso a quelli relativi ai mutamenti climatici».
Quello fu effettivamente un momento straordinario: fine dell’era Reagan con gli Stati Uniti forti e orgogliosi, ma nei quali si cominciava a parlare di declino, stretti com’erano tra un’Unione Sovietica minacciosa — anche se in realtà, scopriremo poi, vicina al collasso — e un Giappone in piena espansione che comprava pezzi d’America.
«Gliel’ho detto, la ruota della fortuna editoriale girò a mio favore. Se il libro fosse uscito tre anni dopo, nel 1991, dopo la caduta del Muro di Berlino e con l’Urss ormai dissolta, mentre il Giappone, esaurito il suo miracolo economico, entrava in stagnazione, non avrebbe avuto lo stesso successo. Invece fu incredibile: tradotto in tutto il mondo, due milioni di copie vendute, primo nelle classifiche d’America. Salvo quella del «New York Times» dove rimase secondo. Battuto da un libro intitolato The Art of the Deal di un certo Donald Trump».
Colpisce la previsione di un’India che affianca Usa e Cina come grande potenza planetaria. Ha ormai una popolazione superiore a quella della Cina e più giovane, è vero, ma è anche un Paese con enormi sacche di povertà e livelli d’inquinamento tremendi.
«Giusto. Bisogna tenere conto anche dei fattori ambientali. E il global warming favorisce di certo l’Europa dei Paesi dal clima temperato rispetto a India e Cina con i loro vasti territori dalle condizioni climatiche estreme. L’India (dove si vota nella prossima primavera, ndr) sta però crescendo molto, dai servizi all’industria, mentre Modi ha grandi ambizioni, anche di rafforzamento militare, simboleggiato dalle sei portaerei in programma. Il progresso più spettacolare tuttavia riguarda il digitale e ha gambe solide: nei prossimi anni verranno aperte in India dieci nuove università tecnologiche grandi come il Massachusetts Institute of Technology. E poi, con la crescita, cambiano i rapporti dimensionali. Fino a qualche decennio fa il mio Paese, la Gran Bretagna, era una grande potenza. Oggi, con il 2,3 per cento del Pil mondiale, non lo è più. E tra qualche decennio, un’India per la quale è previsto un reddito nazionale che supererà di dieci volte quello britannico, investendo lo stesso due per cento del Pil nella difesa, avrà un apparato militare enormemente superiore».
Lei sembra dare per scontato un ritiro degli Usa dal mondo. Gli europei lo temono in caso di vittoria di Trump alle presidenziali di novembre 2024. Ma per ora Biden rafforza la Nato, pur con l’ostacolo di un Congresso diviso e radicalizzato.
«Vedremo che succederà con Trump, ma le cose cambiano, gradualmente, da tempo. A metà del secolo scorso la posizione di Washington era che non c’è nessuna parte del mondo nella quale gli Usa non abbiano interessi da difendere. Ma due anni e mezzo fa, ritirandosi dall’Afghanistan, Biden dichiarò la fine dell’era dei grandi interventi militari in altri Paesi. Parole significative».
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