Nella stanza blu di Lynch dove si libera il pensiero
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31 Marzo 2024Sguardi In un volume uscito per Mimesis una riscrittura del progetto dell’illuminismo dopo le obiezioni dei postmoderni
Il populismo, il Covid, la guerra… l’originale indagine di Sebastiano Maffettone
di Maurizio Ferraris
il libro di Sebastiano Maffettone Il nostro tempo con il pensiero (Mimesis) nasce da una tensione. Da una parte, l’esigenza della normatività, del movimento dall’alto in basso che pone dei princìpi e si impegna ad applicarli: il grande modello è quello dell’imperativo categorico di Kant: si pone un obbligo morale che vale indipendentemente dagli obiettivi empirici che possiamo conseguire, e lo si segue. Dall’altra, ci sono gli obiettivi, le circostanze, tutto il mondo che procede dal basso, dalla sfera dell’esperienza, della storia e degli interessi concreti. Gettare un ponte fra le due dimensioni è il compito dell’etica pubblica, l’ambito in cui Maffettone ha esteso la sua lunga attività filosofica.
A partire da questa tensione possiamo capire il senso del richiamo a Hegel che dà il titolo al libro: la filosofia è il nostro tempo compreso concettualmente. Una visione del filosofare che può tradursi in un impressionismo filosofico come quello teorizzato a suo tempo da Gianni Vattimo, nel quale prevalevano il richiamo alla storia e all’esperienza e il rifiuto della normatività e dell’apriori, o una ontologia dell’attualità come quella elaborata dall’ultimo Foucault, dove invece dall’empirico ci si sforza di risalire al trascendentale, al livello della normatività.
Scartando l’una e l’altra ipotesi, Maffettone apre un gioco serrato tra le due dimensioni, la normatività e l’esperienza, con una dialettica attiva nel corso di tutta l’opera che tiene fermo il nucleo teorico fondamentale e lo declina in una sorprendente varietà di ambiti (politica, giustizia, religione, liberalismo, economia, sostenibilità). Nel farlo, si rivela a proprio agio anche in temi strettamente connessi con il mondo storico, come il ruolo esemplare dell’Unione Europea, la definizione e la giustificazione della guerra giusta (in riferimento all’Ucraina), le ripercussioni sociali e politiche del Covid, l’Intelligenza artificiale, l’arte, per concludere con un ricordo di Salvatore Veca, maestro e amico scomparso nel 2021.
Quanto alla normatività, i modelli sono due grandi partigiani dell’illuminismo: John Rawls (di cui Maffettone a suo tempo tradusse l’opera fondamentale, Una teoria della giustizia, 1971) e Jürgen Habermas. Ma il loro tempo non è più il nostro, in mezzo c’è stato il postmoderno che ha rimescolato le carte. In particolare, con il venir meno delle grandi narrazioni della modernità, tutti i processi di giustificazione dell’agire morale e politico dall’alto in basso sono stati scossi.
La comunicazione dal basso che ha luogo nel web (con connessi effetti di postverità e di populismo), il sospetto nei confronti delle misure preventive proposte dagli Stati nell’epoca della pandemia, ma anche il ritorno della religione in un contesto che si sentiva completamente secolarizzato non sono che alcuni dei fenomeni che si sono presentati in un’epoca che convenzionalmente potremmo far iniziare nel 1979, solo otto anni dopo l’apparizione del monumentale volume di Rawls, quando Lyotard fece uscire un libro di poco più di cento pagine, La condizione postmoderna, che segnò l’ingresso del postmoderno (già presente nella letteratura e nell’architettura) in filosofia e in un più ampio dibattito pubblico.
Habermas attaccò il postmodernismo in Il discorso filosofico della modernità (1985), in cui criticava i maggiori esponenti filosofici della corrente, la cosiddetta French Theory (Derrida e Foucault prima di tutti), ne rintracciava gli antefatti (in Nietzsche e nella Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno), ma si limitava a proporre un progetto formale, quello di un rilancio del programma illuminista, l’unione del sapere e della progettualità sociale e politica per il progresso dell’umanità. Troppo poco, tanto è vero che, mentre il postmoderno occupava ogni spazio del dibattito pubblico e della coscienza comune, le idee di Habermas restavano confinate nei seminari filosofici, e anche lì erano insidiate dai postmoderni.
Maffettone riconosce con chiarezza questo aspetto, e propone una strategia nuova e originale, che si potrebbe definire come una riscrittura del progetto dell’illuminismo alla luce delle obiezioni dei postmoderni. Quello che emerge è uno sguardo sul presente assolutamente originale. Nel momento in cui i catastrofisti vedono nel presente un trionfo del populismo, l’affermarsi di un regime biopolitico di sorveglianza, un venir meno della giustificazione della politica, una crescita incontrollata del capitalismo, Maffettone raccoglie quello che c’è di legittimo in queste istanze ma lo traghetta in una diversa dimensione.
È indubbio che la nostra sia un’epoca in cui il populismo è una realtà ineludibile con cui fare i conti, è vero che nella gestione della pandemia si è registrato un controllo biopolitico, con una oggettiva limitazione della libertà. Ed è vero che la politica, nell’epoca del web, è profondamente mutata, ma può essere compresa e non semplicemente demonizzata. Così come è necessario capire che il capitalismo non è necessariamente un male, e costituisce anzi una risorsa per il progresso, se mitigato con le risorse della razionalità e della solidarietà.
Ne esce un libro profondamente controcorrente nella sua pacatezza. Un libro che getta sul presente molta più luce di quanto non facciano teorie più urlate e allarmistiche. Un libro che chiede pazienza e raccoglimento, e li ripaga — mantenendo la promessa enunciata nel titolo — con il piacere di comprendere riflessivamente il tempo in cui viviamo.