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24 Ottobre 2022Oggi giura il governo Meloni. Il primo guidato da una donna nella storia d’Italia, il primo guidato dalla destra radicale erede del fascismo. La lista dei ministri rivela già alcuni tratti fondamentali dell’esecutivo: un forte ruolo delle lobby economiche, a cui vengono di fatto appaltati settori interi di politica pubblica; l’assenza di «tecnici» di peso, segno di un feeling ancora scarso con pezzi di establishment, che ha costretto Meloni a raschiare il fondo del barile del berlusconismo riciclando buona parte del vecchio governo 2008-2011; scelte molto identitarie nei nomi dei ministeri, con feticci come la «natalità» e il «merito» su cui costruire la guerra simbolica. Un governo tanto forte nei numeri in parlamento quanto debole nella società italiana, in basso come in alto, e che per reggere sul piano del consenso decide di puntare tutto sull’«usato sicuro» della vecchia destra arraffona e sulla «culture war» tra reazione e progresso.
Il complesso militare-balneare
Alla difesa il lobbista delle armi, all’università la docente/avvocata, al turismo l’esercente balneare, al lavoro la consulente delle aziende. Giorgia Meloni, cresciuta alla scuola di Silvio Berlusconi, sembra aver elevato il conflitto d’interessi a metodo politico. Il governo partorito dalle lunghe trattative di queste settimane non è, decisamente, di «altissimo profilo». Che si sia trattato di una scelta o di assenza di alternative, la lista dei ministri sembra costruita più per accontentare l’elettorato tradizionale della destra e determinati settori economici di riferimento che per parlare alla grande maggioranza del paese, quella che il 25 settembre scorso non ha votato Giorgia Meloni.
Le proporzioni interne tra i partiti rispettano i dettami del metodo Cencelli: a Fratelli d’Italia, 10 ministri più la presidente Giorgia Meloni e il suo sottosegretario Alfredo Mantovano, 5 ministri alla Lega, 5 a Forza Italia e 4 tecnici d’area. Tra i ministri di FdI, oltre al cognato e braccio destro di Meloni, Francesco Lollobrigida (agricoltura), tornano politici di lungo corso come Adolfo Urso (sviluppo economico), Nello Musumeci (Sud), Raffaele Fitto (affari europei e Pnrr). Viene promosso il fedelissimo direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano (cultura), capace di far intervistare l’esoterico ideologico dell’estrema destra russa Aleksandr Dugin sulla tv pubblica. Alla famiglia e alle pari opportunità sbarca Eugenia Roccella, reduce da vent’anni di Family Day e guerra senza quartiere ad aborto, fecondazione assistita e diritti per le persone Lgbtq+. Il cofondatore di Fratelli d’Italia, nonché lobbista dell’industria degli armamenti e coltivatore di rapporti trasversale, Guido Crosetto va alla difesa, e la titolare del Twiga Beach Club, nonché neofascista da talk show, Daniela Santanché, al turismo. A ogni ministero la sua lobby, pronta a mettere poteri, politiche e soprattutto risorse pubbliche al servizio di determinati interessi. Come ha acutamente sintetizzato Mattia Diletti su Twitter ieri: «il complesso militare-balneare».
Berlusconismo e liberismo
Dei 26 membri del governo annunciati ieri, ben 11 (Meloni, Crosetto, Urso, Bernini, Santanché, Calderoli, Musumeci, Roccella, Casellati, Fitto, Mantovano) facevano parte del governo Berlusconi IV, l’esecutivo in carica dal 2008 al 2011, quello della riforma Gelmini dell’istruzione, della privatizzazione dell’acqua, del programma nucleare, di Ruby nipote di Mubarak e delle dimissioni a un passo dal default. Il quindicennio post-2008, così denso di trasformazioni politiche in tutto il mondo, e così caratterizzato dalla volatilità elettorale che ha permesso a Fratelli d’Italia di passare dall’1,96% del 2013 al 26% del 2022, sembra aver fornito ben poche personalità alla destra italiana. Degli stessi ministri di FdI, ben quattro su dieci (Roccella, Fitto, Crosetto e Santanché) sono ex berlusconiani accorsi recentemente alla corte della nuova leader. Un altro dei ministri meloniani, del resto, è quel Carlo Nordio, già sostenuto come candidato alla Presidenza della Repubblica lo scorso gennaio, divenuto celebre negli anni Novanta quando le tv berlusconiane fecero delle sue inchieste sulle cooperative rosse il contraltare di destra a Mani Pulite. In termini diretti, Berlusconi ottiene gli esteri (Antonio Tajani), l’ambiente (Gilberto Pichetto Fratin), l’università (Anna Maria Bernini), la pubblica amministrazione (Paolo Zangrillo) e le riforma (Elisabetta Casellati). Cinque fedelissimi, in cinque ministeri di tutto rispetto. La figura di Tajani, del resto, allo stesso tempo dispensatore di nostalgie di fascismo e monarchia e affidabile ex presidente del Parlamento Europeo, rappresenta in pieno l’ambiguità su cui la destra italiana si basa da quando Silvio Berlusconi nel 1994 la inventò. Tajani sarà anche vicepresidente del consiglio, insieme a Matteo Salvini, a sua volta ministro delle infrastrutture (ma all’interno ha piazzato un prefetto di propria fiducia, Matteo Piantedosi). Soprattutto, la Lega porta a casa il ministero più importante in assoluto, quello dell’economia e delle finanze, per Giancarlo Giorgetti, già referente della borghesia settentrionale nei governi Conte I e Draghi. Un altro «non tecnico» all’economia dopo Roberto Gualtieri, un uomo di partito, per quanto ben inserito negli ambienti che contano. Meloni non avrà un commissario esterno, designato da Bruxelles o dal Quirinale, a tenere i cordoni della borsa. Da una parte una libertà non da poco, visti i precedenti, dall’altra una responsabilità che in molti avrebbero preferito evitare. Di sicuro, all’economia va un uomo ben visto dall’élite economica del paese ma sottoposto a un mandato politico e di conseguenza alla prova del consenso: un parziale ritorno alla mediazione politica, in un’epoca tradizionalmente caratterizzata dal controllo diretto sulle politiche economiche da parte del grande capitale. Ma la direzione ideologica è ben chiara: Giorgetti è un esemplare puro del neoliberismo italiano, un uomo convinto che il compito dello stato sia liberare risorse a vantaggio dell’impresa e della sua capacità di produrre crescita. Ancora più caratterizzata in termini ideologici e di classe è Marina Calderone, ministra del lavoro ed ex presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro. Avversaria del reddito di cittadinanza, grande estimatrice del Jobs Act, storica sostenitrice dell’estensione della libertà di licenziamento al pubblico impiego: non è davvero un mistero da che parte stia la nuova ministra.
La culture war
Una compagine identitaria, fatta per solleticare con nomi alla Nordio la base della destra, e costretta ad appoggiarsi pesantemente all’usato sicuro del berlusconismo: se il governo è questo, significa che le grandi aperture all’establishment di cui molti hanno parlato a lungo, evidentemente, non sono andate a buon fine. Che sia perché i tecnocrati di peso, ad oggi, hanno preferito stare a guardare o perché Meloni ha scelto di lasciarli fuori e varare un governo sotto il suo pieno controllo, di sicuro questo esecutivo rappresenta i 12 milioni di persone che hanno votato per la destra un mese fa e nessun altro. Se l’establishment liberale ha già dimostrato in passato di sapersi far convincere dalle scelte politiche favorevoli (e Giorgetti e Calderone, tra gli altri, sembrano lì apposta), la sfida più complessa sarà quella popolare, soprattutto in tempi di carovita e crisi energetica.
Per ora la strada scelta da Meloni sembra essere, come ampiamente previsto, quella della «culture war», delle battaglie simboliche reazionarie con cui rompere ogni possibile allineamento di classe, inchiodando il dibattito su rivendicazioni reazionarie nei confronti di ogni progresso compiuto su genere, temi Lgbtq+ e immigrazione. Gli stessi nomi dei ministeri, del resto, sembrano fatti apposta per provocare l’opinione pubblica democratica e progressista, talvolta addirittura in maniera paradossale, come nel caso del ministero per «agricoltura e sovranità alimentare» occupato da Lollobrigida, che riprende uno dei concetti più tipici del movimento altermondialista, in particolare nel sud del mondo, strumentalizzandolo in senso nazionalista. Il ministero del Sud diventa «Sud e mare», quello dell’ambiente vede la scomparsa della «transizione ecologica» sostituita da «sicurezza energetica». Non che l’ex ministro Roberto Cingolani abbia mai davvero messo in campo un reale processo di trasformazione ecologica dell’economia, però è evidente il cambio di priorità: un passo indietro gigantesco, sul piano simbolico, nella battaglia per il clima. Il ministero di Eugenia Roccella, forse la ministra più reazionaria dell’esecutivo, sarà dedicato a «famiglia, natalità e pari opportunità», segnalando in maniera molto esplicita il ruolo che si attribuisce alle donne nel paese che Meloni vuole governare. Un assist ai Pro Vita che prelude inevitabilmente a nuovi attacchi al diritto all’aborto e a qualsiasi modello di famiglia non strettamente basato sulla procreazione eterosessuale. Senza che si parli minimamente, ça vas sans dire, delle politiche di welfare e lavoro che permetterebbero davvero a chi lo desidera di fare dei figli in maniera più serena. Cambia nome anche il ministero dello sviluppo economico, ribattezzato ministero «delle imprese e del Made in Italy»: da una parte, una confessione in piena regola, che rivela come quello che dovrebbe essere il motore delle politiche industriali abbia da tempo rinunciato a ogni pianificazione per diventare uno strumento al servizio del sistema delle imprese così com’è; dall’altra, l’ennesimo appello alla logica vetusta dell’export a tutti i costi, tutta etichetta tricolore su prodotti da vendere altrove, mentre il mercato interno è ucciso da una compressione salariale senza fine. Chiude il quadro il ministero dell’istruzione, diventato «dell’istruzione e del merito»: il trionfo della logica della selezione e della competizione, l’esatto contrario dell’idea di un’istruzione pubblica, universale, per l’emancipazione di tutti e tutte che dovrebbe essere la ragione sociale del ministero di Viale Trastevere. Una logica, va detto, in piena continuità in questo caso non solo con il berlusconismo, che della retorica del merito nell’istruzione fu il principale animatore, ma anche dei suoi successori, centrosinistra compreso. Chissà che il ritorno a destra, e a questa destra, della retorica del merito non emancipi una volta per tutte il campo democratico e progressista dai miasmi di questi decenni.
La destra populista si dimostra una volta di più una serie di fiocchi tricolori sul solito trito liberismo senza futuro, pronta a segmentare, dividere, discriminare per poter sfruttare e impoverire meglio. I nomi dei ministeri come la scelta delle persone che li guideranno sembrano rivolgersi in maniera molto netta alla minoranza di persone che si riconoscono in Giorgia Meloni, a una serie di lobby parassitarie e a un voto interclassista ossessionato da migranti, donne e omosessuali. All’opposizione la sfida di costruire messaggi, proposte, organizzazione in grado di mobilitare la maggioranza delle persone.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).