di Michele Serra
Volendo raccontare a chi non c’era l’atmosfera di quel giorno di mezzo secolo fa — la prima domenica di austerity, tutti a piedi — direi così: fu una specie di lockdown senza morte. E senza spavento. L’obbligo di fermarsi, il silenzio impressionante, i motori zittiti, il rumore dei passi e le voci delle persone che riempivano le strade, una lentezza riconquistata, la dimensione umana (proprio nel senso delle nostre silhouette) che ridefiniva il paesaggio non solo urbano, perfino autostradale.
Molti la buttarono anche in folklore e qualcuno in burla, ne approfittarono per tirare fuori da non so dove calesse e carretti, cavalli e somari (che solo vent’anni prima, nel dopoguerra, erano il principale mezzo di trasporto nelle zone rurali), pattini, monopattini quelli vecchi da bambino, mica gli ordigni che sfrecciano adesso, e ovviamente biciclette a milioni.
La bicicletta era nella sua età di crisi, non più mezzo di locomozione popolare, non ancora articolo sportivo, oggetto di culto ambientalista e salutista. Ne sbucarono da ogni dove, a milioni, come topi che si ribellano a ingiuste fogne. Furono momenti socievoli e allegri, telegiornali, giornali e rotocalchi diffusero immagini di gente che giocava a pallone in autostrada, e a scacchi e a tressette nel bel mezzo delle vie e delle piazze urbane finalmente mondate dalle automobili.
L’innesco di quella improvvisa sospensione della modernità, a dirlo ora, solleva parecchie domande. La causa contingente fu l’embargo imposto dai Paesi del Golfo; ma si disse che il petrolio era ormai poco, non lontano dal suo esaurimento, e comunque troppo caro; che avevamo spremuto troppo il limone, essendo il limone il pianeta Terra e il suo sottoterra. Era, insomma, un allarme ad averci appiedato, con le autorità locali e globali impegnate a spiegare che stavamo bruciandotroppa energia, eravamo cresciuti troppo in fretta e troppo spensieratamente, non avevano fatto bene i conti con il dare e con l’avere. Questo fu l’austerity: una prima grande crepa nell’idea di Progresso così come l’avevamo metabolizzata fino a lì, si lavora, si produce, si sta meglio. La crescita felice, i consumi illimitati, la benzina come propellente inesauribile. Una specie di moto perpetuo, o meglio di motore perpetuo: che invece, inopinatamente, nel settimo giorno, la domenica, fu costretto a fermarsi.
Per dire il vero già da qualche anno — la seconda metà dei Sessanta — c’era disagio e c’era perfino rivolta, contro quell’idea così lineare, così vincente del Progresso. Produci e consuma, consuma e produci, vale la pena vivere una vita così? Ma il disagio e la rivolta erano esistenziali, erano politici, erano insomma idee, sentimenti, ideologia, cultura… a un certo punto invece si materializzano le taniche vuote, le pompe di benzina con il cartello “chiuso”, insomma prende corpo un intoppo materiale, tecnico, non politico, non ideologico, non psicologico.
Ripensarci oggi fa impressione: perché mezzo secolo non è un attimo, è un paio di generazioni, una miriade di governi. Eppure, con il senno di poi, la cosa più sensata che possiamo dirci, su quel momento, è che l’abbiamo spazzato via. Ignorato. Ci siamo passati sopra come su una trascurabile fessura del pavimento. La macchina del progresso ha scovato altre strade per convincersi di essere invincibile: altro petrolio è stato trovato in fondo al mare e in altri recessi fino a lì trascurati, trivelle delle sette leghe hanno soppiantato quelle vecchie facendole sembrare cavaturaccioli, gli americani hanno trovato il modo di estrarre idrocarburi perfino frullando il sottosuolo (si chiama fracking ,devasta la crosta terrestre ma frutta un sacco di quattrini). Nessuno immaginava, mezzo secolo fa, che di petrolio, e di petrodollari, e di combustibili fossili, si sarebbe parlato ancora molto a lungo, così a lungo che ancora oggi non pochi poteri, politici ed economici, parlano dei combustibili fossili come di una cornucopia (vedi Donald Trump) e della crisi energetica, e di quella climatica, come dell’invenzione malevola e perversa degli ambientalisti. Un freno doloso al mito dello sviluppo, dei motori in perenne movimento, per maggior gloria del fatturato e di chi se ne può annettere la fetta più grande.
Nel lockdown si diffuse in rete una bellissima poesia, di invincibile forza emotiva, ma anche razionale, di Mariangela Gualtieri: il primo verso era “dovevamo fermarci prima”. Già: ma “prima” ci eravamo già fermati, e non è servito a niente. Non abbiamo imparato niente. Era ancora l’inizio degli anni Settanta, era nel bel mezzo del Novecento, e qualche calcolo, qualche preavviso, qualche scrupolo già faceva capolino: il concetto di fondo, già nel 1972, era che niente è illimitato. Niente inesauribile. Niente eterno. Un concetto scientifico, mica “moralista”: eppure enunciato inutilmente.
«Il petrolio finirà» non era una profezia, era un conteggio, un dato di fatto che poteva essere rinviato, non cancellato. E che si sia poi riusciti a procrastinare fin qui (siamo scimmie molto ingegnose) l’evo dei combustibili fossili, è merito della febbrile attività e avidità dell’uomo. Ma siamo daccapo, cinquant’anni dopo. E poco abbiamo fatto, tutto sommato, per prendere sul serio quelle domeniche a piedi, per uscire dal folklore e parlare sul serio di politica.
Vale aggiungere che di austerità, cinque anni dopo (1977) parlò Enrico Berlinguer. I detrattori dissero che era un uomo triste e antico. Oggi, in pieno cambiamento climatico, siamo esattamente a quel bivio: cambiare modello di sviluppo o pensare che esiste il moto perpetuo?