di Flavia Perina
L’Europa come «un comitato d’affari», un circolo di burocrati dominato da Francia e Germania, il «superstato che dietro le quinte si mette d’accordo su come depredare gli altri Stati europei»: solo cinque anni fa questi erano i toni, questi i giudizi di Giorgia Meloni alla convention di apertura della campagna elettorale per Bruxelles. Le parole di allora e quelle di oggi sono un buon metro per giudicare l’avanzamento, se avanzamento c’è stato, rispetto alla leadership minoritaria del passato e soprattutto allo schema sovranista, quello che nel 2019 ancora rivendicava la supremazia delle leggi nazionali su quelle dell’Unione: in pratica l’Italexit.
Il cambiamento principale che si vede è un salto di qualità delle ambizioni. La premier che alle ultime Europee si batteva per star sopra alla soglia di sbarramento, accarezzando le pulsioni no-euro allora di moda, ora può indicare propositi più grandi di una svolta nelle scelte nazionali. Mostra ai suoi una sfida da fine del mondo, un götterdämmerung per scardinare gli equilibri continentali e imporre all’Europa il modello italiano: conservatori, sovranisti e popolari al governo contro tutti gli altri. Quel modello, nella sua visione, può fermare un’integrazione europea che non le piace e confinare le autorità dell’Unione nel ruolo di regolatori dei commerci. Al massimo, se mai si riuscirà a organizzarla, di una difesa comune. Su tutto il resto il comando tornerà alle Nazioni.
È un passo indietro verso la vecchia Cee dei ’60 definita dalle posizioni di Charles De Gaulle («Non può esserci altra Europa che quella degli Stati nazionali», unica citazione dell’intervento di ieri). È un traguardo ai limiti dell’utopia: immaginare il popolarismo europeo a braccetto con Marine Le Pen o i neonazisti di Afd risulta ovviamente impossibile, sia politicamente sia numericamente visto l’andamento dei sondaggi. Ma è anche un modo furbo per tenere insieme le istanze sovraniste a cui Meloni non vuole rinunciare, le intese con il vecchio gruppo di Visegrad, e il dialogo con i moderati di Ursula von der Leyen o chiunque la sostituirà ai vertici della Commissione Ue.
L’enormità della sfida piacerà agli elettori della destra, che amano le grandi battaglie di principio e soprattutto sono inconsapevoli dei rischi di uno scenario come quello che la premier indica. Un’Europa divisa a metà come una mela, «come l’Italia», significherebbe un Continente paralizzato in ogni sua decisione, dove il blocco delle destre governa contro le sinistre, o viceversa, e i Paesi a guida socialista si scontrano con quelli a guida popolare in una faida senza fine sovrapposta a quella tra frugali e mediterranei. Un incubo.
Ma c’è un salto di qualità anche nelle ambizioni personali della premier, che esce dal ruolo di capo del partito di maggioranza relativa per presentarsi all’elettorato di centrodestra come titolare esclusiva di qualcosa di nuovo, un brand – “Vota Giorgia” – più che una formula politica o la leadership di una coalizione vincente. La nomination nei simboli di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini impallidisce davanti a questa nuova progressione dove il cognome non serve più, è una sovrastruttura, perché Giorgia è una sola e basta la parola. Anche questo piacerà alla destra. I più anziani ci troveranno l’eco della confidenzialità del passato, quando i leader storici non erano protetti da scorte e auto blu e si fermavano pure per l’ultimo dei militanti. Gli altri, i nuovi arrivati e i più giovani, ci vedranno la conferma che lei è “diversa da tutti”. Non onorevole Meloni, non presidente Meloni, solo Giorgia.
Per molto tempo gli osservatori si sono chiesti dove Meloni volesse portare la sua destra, se verso Viktor Orban o verso Ursula von der Leyen, e gli italiani si sono interrogati sulla natura della premiership e sulla sua capacità di far fronte alla perenne emergenza italiana. Il discorso di Pescara scioglie l’enigma in modo assai pragmatico: Meloni userà le Europee per conquistare un en plein personale, tutto il resto (compreso il destino degli alleati) è contorno. Un contorno che sarà rinviato al giorno dopo il voto, quando alle grandi battaglie di principio si sostituiranno gli affari correnti delle nuove regole di bilancio, del rientro dal debito, delle casse dello Stato vuote, e un peso più alto a Bruxelles potrebbe aiutare a sciogliere i nodi di Roma, quelli che davvero preoccupano la premier.