Cosa ci raccontano i bambini e le bambine a scuola? Il cinema ha una sua speciale affezione per questo soggetto declinato più volte e in modo diverso al punto da essere divenuto quasi un archetipo – compreso il rischio di una facile banalizzazione. Perché non basta appunto il soggetto in sé, ci vuole ritmo, tempo, ascolto, sguardo, prospettiva – pensiamo al magnifico film di Nicolas Philibert Essere e avere – e soprattutto una relazione che deve essere curata e inventata insieme in ogni passaggio. È proprio da qui che parte Sophie Chiarello (Ritails) per il suo nuovo film in concorso, unico titolo italiano in Alice nella città, che questa relazione indispensabile, preziosa e in continuo mutamento la costruisce attraverso cinque anni seguendo l’intero ciclo elementare di una classe – e la sua maestra, Francesca Tortora – dell’Istituto Daniele Manin di Roma. La sua presenza diviene abituale, e se all’inizio, quando li conosciamo che sono ancora piccolini l’obiettivo è qualcosa quasi di magico, che li attrae nel suo «mistero» per fare facce buffe o metterci le dita sopra, col tempo si fa quasi invisibile: Sophie, come la chiamano, è un interlocutore a cui rivolgersi, silenziosa e fuori dall’orizzonte del quadro come qualsiasi adulto che non sia alla loro altezza a cui è girato tutto il film.
SIAMO nel 2015, per tutti loro è il primo giorno di scuola: zainetti rosa, carezze, i genitori che li guardano entrare amorevoli. Le mani di qualcuno (troupe ristrettissima, la condizione indispensabile per un lavoro del genere) sistemano il microfono su una bambina: «Cosa è la felicità» – le chiede. E se per la piccola è «un’emozione che sale dal cuore», per l’altro compagno è «trovare 100 euro a terra». Una bambina vorrebbe vivere per sempre in Perù, da sua nonna, dove «c’è una grande piscina», uno preferirebbe rimanere piccolo – «gli adulti faticano per badare ai figli e per lavorare». Un altro ancora vorrebbe andare nello spazio per scoprire se esiste davvero Star Wars o se i luoghi dei cartoni sono veri. Fantasie, piccole paure, frasi che ripetono gli interni famigliari. «Mio padre ha il posto fisso» dice una bimba. Ma alla domanda su cosa sia il posto fisso non sa rispondere. Il cerchio – che dà il titolo al film – diviene lo spazio per questa presa di parola dei bambini: seduti in terra insieme alla maestra i bimbi e le bimbe parlano di tutto mentre vengono filmati, a volte si interrompono, piangono, le voci si accavallano ma ogni frase, pensiero, desiderio fluisce liberamente senza avere paura di giudizi. Da un anno all’altro i protagonisti cambiano, alcuni restano, altri vanno via, ne arrivano di nuovi, e gli equilibri si modificano inevitabilmente come i loro sorrisi senza più gli spazi vuoti dell’infanzia, il modo di parlare, la visione delle cose, i dolori, i vissuti. Si affacciano le realtà in famiglia, i genitori separati, e c’è chi come il ragazzino indiano si lamenta del suo colore – «Io sono marroncino loro rosati, è più bello» – ma l’altro gli dice deciso che gli esseri umani sono tutti uguali. O chi come la ragazzina, che il quaderno con le righe dice dove devi scrivere, e poi l’anno dopo c’è la fretta di essere adolescenti per uscire da sole senza la mamma. Il ragazzino nuovo ha cambiato scuola perché lo bullizzavano, fa danza e gli dicevano che non è da maschi – è stupido, dice lui, però mi fa stare male lo stesso. Quello che discutono lì, nel cerchio, è ciò che attraversa la società e rispetto alla visione dei «grandi» i ragazzini sembrano crescere in questo momento di confronto con molta più consapevolezza: «Siete la mia famiglia» dice uno agli altri e più di qualcuno si scioglie in lacrime.
C’È ANCHE rabbia insieme alla dolcezza, si possono dire e le cose più brutte, come che Babbo Natale non esiste, tanto da far piangere mezza classe perché qualcuno ci crede, ma la ragazzina si dispera perché i suoi a Natale lavorano fino a sera e ai doni preferirebbe avere la famiglia intorno. Ascolto, cura, rispetto: è di questo poi che si parla, di come dirle le cose, di come dare voce ai pensieri e condividere i propri stati d’animo. Chiarello costruisce la sua narrazione con immediatezza, porta un po’ anche noi dentro quel «cerchio» rendendoci partecipi di un’intimità che ci interroga e che ci riguarda. I suoi ragazzini e ragazzine diventano pian piano personaggi in un movimento di emozioni, risate, lacrime mai ammiccante, che ne rispetta la presenza e il loro donarsi. E che trova la sua misura in una forma di cinema nella quale, anche noi come dice la regista, cresciamo con loro scoprendo un po’ che adulti vorremmo essere.