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L’attacco di Giorgia Meloni al cinema, sferrato con forza al Forum in Masseria, non è solo una crociata contro presunti sprechi. È un segnale rivelatore: il cinema è oggi uno degli ultimi luoghi in cui la società lascia tracce leggibili, ed è proprio per questo che fa paura. Lì sopravvive una capacità critica che altrove è stata neutralizzata.
Dietro la denuncia di un “sistema ignobile” e la promessa di una riforma “meritocratica”, si nasconde un disegno più profondo: delegittimare la cultura come spazio autonomo di pensiero. I casi citati – dal film I Cassamortari al caso Kaufmann – sono usati per colpire un intero settore, evocando l’idea di un’élite parassitaria da sradicare. Ma il vero bersaglio è il ruolo critico e civile del cinema, che racconta le contraddizioni del presente, spesso ignorate dai grandi media.
Non è solo una questione di fondi: è una battaglia sull’immaginario. Chi controlla ciò che può essere rappresentato, controlla anche desideri, identità, visioni del mondo. Per questo Meloni e Giuli vogliono disinnescare il cinema come spazio di conflitto simbolico.
Molti hanno risposto. Alice Rohrwacher ha parlato di “cinema sotto minaccia”, Favino denuncia il clima di sospetto verso chi racconta un’Italia diversa, Procacci ricorda che “senza sostegno pubblico il cinema indipendente muore”. Anche voci internazionali mettono in guardia: l’Italia rischia di ridurre il suo cinema a intrattenimento inoffensivo o a propaganda.
Difendere il cinema oggi non significa difendere un privilegio, ma una funzione pubblica essenziale: quella di pensare, criticare, immaginare. Colpire il cinema significa colpire la democrazia. E proprio per questo – oggi più che mai – va difeso.